Yemen, rappresaglia dopo il bombardamento dell’aeroporto di Aden

Vatican News

Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano

Ancora nessun notizia circa la paternità dell’attacco che ieri, all’aeroporto di Aden, ha ucciso un numero imprecisato di persone, si parla di 22 o 26, ferendone a decine e colpendo soprattutto il neo governo del presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi, riconosciuto a livello internazionale, basato ad Aden, sostenuto da Riad e dalle potenze occidentali, che in quel momento arrivava in Yemen. Come rappresaglia, gli aerei da guerra della coalizione guidata dall’Arabia Saudita hanno colpito nella capitale Sanaa, i bersagli degli Houthi, ritenuti all’origine dell’attacco all’aeroporto e poi di un secondo, in serata e senza vittime, al palazzo presidenziale. Immediata la smentita della milizia sciita alleata dell’Iran che, dal settembre del 2014, controlla la maggior parte dei centri abitati, compresa la capitale.  

I dubbi sulla firma degli Houthi

L’aspetto interessante, commenta Silvia Laura Battaglia, free lance e documentarista esperta di Yemen, è che “gli Houthi, quando attaccano, dichiarano con molta chiarezza la loro rivendicazione”. Il fatto dunque che non si siano esposti potrebbe anche, sempre secondo la Battaglia, “escludere la loro presenza e la loro intenzione”. L’attuale governo, arrivato ieri, nasce da un rimpasto di Riad, tra elementi dell’esecutivo precedente, sempre voluto dal presidente Abd Rabbih Manṣūr Hādī,  ma con elementi del Southern Transitional Council, il cosiddetto STC, il Consiglio di transizione del sud. Di qui la considerazione della Battaglia: “L’Stc è una realtà che nasce dai separatisti del sud dello Yemen, che si è inserita con la forza, e con una serie di truppe, nel sud del Paese riuscendo ad ottenere il lasciapassare da Riad per poter entrare, di fatto, nel governo centrale. Quindi, questa unione tra l’Stc e il governo di Hādī  non è benvoluta da parecchi, comprese alcune milizie più estremiste del Sud, che non vorrebbero assolutamente che possa essere raggiunta un’intesa col governo. Non è pertanto da escludere il fatto che questo attacco possa essere stato perpetrato da milizie vicine all’Stc, ma che non ne gradiscono la posizione, ormai decisamente vicina ai sauditi”.

Ascolta l’intervista con Silvia Laura Battaglia

Il fallimento dell’accordo firmato in Svezia

Il conflitto nel Paese, al suo quinto anno, è in una fase di stallo. Questi atti terroristici, ha dichiarato il presidente Hādī, “non scoraggeranno il governo legittimo dall’esercitare i propri doveri”, mentre l’inviato Onu nel Paese, Martin Griffiths, ha condannato l’attacco come un “atto di violenza inaccettabile” che “ha ucciso e ferito diversi civili innocenti”. L’accordo firmato nel 2019 in Svezia da entrambe le parti non ha portato ad alcun risultato, disatteso da entrambe le parti. “Di solito – prosegue la giornalista – chi va nei consessi internazionali, soprattutto il governo centrale di Hādī , non ha una grande rappresentanza sul terreno, non ha una rispondenza trai capi tribù o anche tra i capi delle milizie che, di fatto, poi fanno la guerra concretamente, quindi è molto probabile che gli accordi possano essere disattesi, poiché non esiste un collegamento così diretto così profondo tra chi dialoga a livello internazionale e  chi invece deve dialogare con chi sul terreno c’e”.  Tuttavia, esiste un altro forte aspetto. Quanto accaduto ieri potrebbe aver a che fare soprattutto col sud del Paese, che vive non solo la frattura tra sud e nord, ma una ulteriore spaccatura al sud, una questione che, tra l’altro, esula dagli accordi firmati, seppur disattesi.

La catastrofe umanitaria e la marcia indietro dei Paesi donatori

Di certo c’è che la situazione umanitaria in questo Paese, il più povero del mondo arabo, è catastrofica. Sono circa 4 milioni gli sfollati e 20 milioni le persone che non hanno accesso alle cure di base. Lo Yemen, inoltre, è sull’orlo di una drammatica carestia, la malnutrizione ha raggiunto livelli record, con almeno 5 milioni di abitanti che ne verranno toccati nei primi sei mesi del 2021, il tutto aggravato dalla presenza del coronavirus. La tragedia yemenita è stata spesso nelle parole del Papa, che l’ha ricordata anche durante l’Urbi et Orbi, parlando dei “bambini che pagano ancora l’altro prezzo della guerra”.  Analogo appello era stato lanciato da monsignor Paul Hinder, vicario apostolico dell’Arabia meridionale e amministratore apostolico dell’Arabia settentrionale.

Le Nazioni Unite hanno denunciato ormai mesi fa che non pochi Paesi hanno ridotto o ritirato del tutto le loro donazioni, arrivando quindi a raccogliere metà dei 2,4 miliardi di dollari richiesti dalla Conferenza dei donatori internazionali. Anche questa drammatica realtà ha una sua spiegazione, sottolinea ancora la Battaglia, poiché “in questi anni di guerra i fondi e le derrate alimentari destinati allo Yemen venivano bloccati ai check point, con la richiesta di ‘mazzette’ in cambio del passaggio. Ecco, quindi, che dopo cinque anni, si può anche capire la marcia indietro di molti Paesi. “Ciò che serve allo Yemen – è la conclusione della Battaglia – è una soluzione politica, finché , finché  ci sarà una volontà politica, una volontà regionale dei Paesi  del Golfo che contano, e una volontà politica interna al Paese, non sarà possibile venire fuori da questo stallo terribile che sta stremando la popolazione”.