Alba Lazzaretto*
Mi capita spesso di attraversare il bellissimo parco che, a ridosso delle antiche mura scaligere di Vicenza, circonda il complesso monumentale della Chiesa e del chiostro cinquecentesco di San Rocco.
Ora qui, in una piccola parte di quell’antico convento con annessi alcuni edifici più recenti, è rimasta solo una scuola materna, dove accompagno le mie nipotine. E guardo con una buona dose di malinconia a quelle finestre vuote, a quel chiostro su cui si affacciavano le sale dell’Istituto di storia sociale e religiosa, fondato da Gabriele De Rosa nel 1975 e che per tanti anni, fino al primo decennio del XXI secolo, hanno accolto le sue iniziative culturali e la scuola dei suoi allievi.
Era una festa, quando arrivava “il capo”, così lo chiamavamo scherzosamente noi collaboratori, che venivamo da varie parti d’Italia per incontrarlo. Dal sud, dal centro, da nord – in una splendida fusione d’intenti – era tutto un accorrere come api sui fiori per ascoltare Gabriele De Rosa, seguire i seminari che organizzava invitando i più noti storici italiani ed europei, pensare insieme a nuove ricerche.
Gabriele De Rosa exegit davvero – con l’aiuto dei suoi centri di ricerca tra Roma, Potenza, Salerno, Vicenza – un monumentum aere perennius: sono rimasti a testimoniarlo le centinaia di libri che coraggiosamente volle pubblicare, anche a costo di fare debiti, perché la cultura valeva molti sacrifici.
Ma su di lui, sulla sua produzione scientifica e su quella della sua scuola, molto si è già scritto.
Qui vorrei ricordare soltanto cosa significava “vivere e lavorare” accanto ad un uomo straordinario, uno di quegli intellettuali ormai d’antan, come quasi non ce ne sono più, con una cultura profondissima, ma soprattutto con un’umanità che ha lasciato in chi lo ha conosciuto un segno ancora più profondo della formazione intellettuale ricevuta.
Era soprattutto un piacere, lavorare con lui. Si faticava assai, ore e ore, per più giorni di seguito, a seguire seminari, a dibattere e a interrogare gli storici più famosi in Italia e in Europa, che egli invitava per noi. Quello che stupiva e attraeva un po’ tutti era il “clima”: laborioso ma anche scherzoso, con i seminari che non si concludevano a fine giornata, ma continuavano all’osteria, o in qualche trattoria veneta, in conviviale amicizia.
Si discuteva di tutto, dalla storia alla politica, soprattutto quando Gabriele divenne parlamentare, e ci raccontava i retroscena del “transatlantico” di Montecitorio o delle sale senatorie.
Ma quello che ci affascinava di più erano i suoi ricordi di vita vissuta in momenti tragici e cruciali della storia italiana: l’esperienza del disastro di El Alamein, da cui fortunosamente riuscì a sopravvivere, la risalita della penisola a fianco degli alleati, l’incontro con Gabriella, la sua prima moglie, in contatto con la Resistenza, gli anni del dopoguerra, il suo lavoro di corrispondente estero dell’«Unità», la sua uscita dalla redazione del giornale, negli ultimi anni Quaranta, quando venne a conoscere i fatti e i misfatti accaduti in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia. Furono anni di difficoltà economiche, ci raccontava, perché rinunciò al lavoro avendo già una famiglia da mantenere. Ma De Rosa preferì raccogliere carta straccia, che poi rivendeva, piuttosto che recedere da quanto gli imponeva la sua coscienza.
E poi ci raccontava dell’incontro con don Luigi Sturzo, di cui divenne il confidente, lo storico che raccolse i suoi ricordi (“Sturzo mi disse” rimane un capolavoro tra le centinaia dei suoi scritti), e del rapporto con don Giuseppe De Luca, con le Edizioni di Storia e Letteratura…
Ce n’era abbastanza perché noi, suoi allievi, capissimo che ci trovavamo di fronte non solo ad un uomo dall’acume e dalla personalità decisamente au-dessus de la mêlée, ma anche – e soprattutto – a un testimone eccezionale della storia d’Italia.
Dopo tre o quattro giorni di intenso lavoro a Vicenza, De Rosa prendeva il treno a mezzanotte e viaggiava fino al mattino, per essere pronto a una nuova giornata di impegni a Roma, all’Università, all’Istituto Sturzo o negli archivi, dove trovava la linfa per le sue ricerche.
Passavano poche settimane – tre o quattro al massimo – e questo “pellegrino della cultura”, zoppicante nel fisico ma dinamicissimo nello spirito, era di nuovo tra noi, a controllare che avessimo svolto tutti “i compiti per casa” che ci aveva lasciato da fare.
Era così, De Rosa: si sacrificava girando tutta la penisola, come trait-d’union tra i centri di ricerca del sud, del centro e del nord, facendoci capire con l’esempio che è in compagnia che si deve lavorare, che è con lo scambio, con il dialogo, che si cresce, e che tutto questo non lo si fa per denaro, ma solo per passione, per amore della cultura, per l’intima necessità di volerla spandere intorno, perché capire a fondo la storia – e comunicarla – significa crescere civilmente, significa la ricchezza delle nuove generazioni, significa costruire un patrimonio umano e culturale che è il solo non soggetto a svalutazione.
In anni in cui alcuni si davano alla lotta armata per cambiare il mondo, nei famosi “anni di piombo”, De Rosa invitava i suoi collaboratori allo scavo tenace negli archivi, o a cercare nuove fonti, ad esempio andando alla ricerca delle edicole sacre – dette nel Veneto “capitelli” – che coprono come un manto di pietà l’Europa intera, e che ci aiutano a comprendere un territorio, i costumi della sua gente, i suoi bisogni, le sue debolezze e le sue forze.
E non bisogna dimenticare che i ricercatori formati da De Rosa furono preziosi, dopo il terribile terremoto dell’Irpinia del 1980, per salvare e recuperare quanto restava tra le macerie degli archivi parrocchiali, comunali, o di quant’altro potesse offrire fonti sulla storia locale.
Generoso impegno, dunque, sempre. Al lavoro, da mane a sera. E ben si attagliava questo modo di vivere allo spirito profondo della popolazione veneta, dove Gabriele si trovava bene, in sintonia, perché in queste terre si pensava che lavorare era in fondo anche una forma di preghiera, e farlo gratuitamente lo era dunque ancora di più. Ma non era solo veneto questo spirito: quando ci si incontrava con gli amici da tutta Italia si sentiva che c’era un sostrato comune, non c’erano differenze regionali: ci legava tutti la voglia di studiare per capire da dove venivamo, quali erano le radici della nostra cultura o della nostra fede, e se la religiosità popolare poteva essere sbrigativamente congedata come superstizione o era invece qualche cosa di più profondo, che Giuseppe De Luca aveva chiamato “pietà”. I settori di indagine furono moltissimi: dalle indagini sulla storia religiosa, alla storia economica, ai lasciti della Rivoluzione francese, alle esperienze dei paesi che prima del 1989 vivevano oltre la “cortina di ferro” – con la bellissima esperienza che diede origine alle ricerche su “La fede sommersa nei paesi dell’est” –, ai grandi convegni sulla carestia politica degli anni Trenta in Ucraina, sui milioni di persone uccise con la fame, con “La morte della terra” sotto il regime staliniano…. Tutto ci trascinava a capire, a lavorare sempre e poi ancora di più, perché la storia era come un forziere di tesori immensi, ed era proprio un peccato lasciarli lì, bisognava scoprirli, interrogarli, renderli fiaccole per il presente.
Con grande onestà intellettuale De Rosa ci invitava a lavorare, con fede, per chi ce l’aveva, ma senza preclusioni ideologiche, dialogando con tutti, con un’eleganza di stile che ci affascinava sempre.
Le sue ricerche, la sua visione della storia, contribuirono a ribaltare l’immagine di alcune figure, come quella di Giovanni Antonio Farina, fondatore nel 1836 della Congregazione delle Suore Maestre di santa Dorotea. Farina – ora proclamato santo – era stato sbrigativamente etichettato come “austriacante”, nella visione un po’ troppo “risorgimentalista” della sua figura, mentre De Rosa contribuì a scoprire tutto l’universo profetico di questo prete e poi vescovo veneto, l’«intelligenza della carità» che il Farina aveva posto alla radice di tutte le sue azioni. Così fu per molte altre figure della storia, che non è qui possibile ricordare. Ma importa il fatto che, scoprendo i “tesori” che alcuni personaggi straordinari ci hanno lasciato, si contribuisce a far fruttare queste preziose eredità, a farne stimolo per il presente, a cogliere i messaggi di vita che ci possono far progredire nella nostra umanità.
Tutte le attività promosse da De Rosa erano sorrette dalla sua visione serena della vita, forte di una fede sobria e sicura, ma anche dalla sua capacità di vedere le cose con intelligente ironia, senza mai perdere la fiducia anche nelle difficoltà.
Era attento soprattutto al “vissuto religioso” dei vescovi, del clero, delle parrocchie e delle persone più umili, dai contadini del sud agli operai del nord.
Una lezione di vita, dunque, quella che De Rosa ci ha lasciato, oltre che una grande scuola di storia.
Lavorare accanto a lui è stato un onere, un onore, ma soprattutto un privilegio. Per questo lo ricordo sempre, gli sono grata per le parole di saggezza che mi ha donato nei momenti difficili della mia vita. Ho lavorato tanto, ma ciò che ho ricevuto – come per molti di noi suoi allievi – è stato molto di più di quanto ho dato.
E dalle sue pagine, dalla memoria che ci ha lasciato, Gabriele ci parla, ancora.
* Professoressa di storia contemporanea dell’Università degli Studi di Padova, già direttrice del Centro per la storia dello stesso ateneo.