Ucraina. Svitlana Dukhovych: il coraggio di parlare per chi non può farlo più

Vatican News

A Lourdes la testimonianza della giornalista della redazione ucraina di Radio Vaticana-Vatican News in occasione delle Giornate internazionali di San Francesco di Sales, organizzate dalla Federazione francese dei media cattolici, dal Dicastero per la Comunicazione, Signis e Ucsi (25-27 gennaio 2023)

Svitlana Dukhovych

Domenica 15 gennaio, quando mi sono messa al computer per preparare gli appunti per questo discorso, le mie mani si rifiutavano di scrivere sulla tastiera, nella mia mente tornavano le immagini della tragedia del giorno precedente: il 14 gennaio, quando in Ucraina si festeggiava la Festa di San Basilio o “Capodanno vecchio” (cioè il primo gennaio secondo il Calendario Giuliano), quando di solito tante persone si radunano insieme, un missile russo ha colpito un condominio a Dnipro, provocando decine di morti e decine di feriti, tra cui bambini.

Il dolore dell’anima, da una parte, porta via le energie e non hai più forza di fare, di scrivere, di dire, e dall’altra capisci che quelle oltre 40 persone non possono più parlare: lo devi fare tu.

Mi sono ricordata l’inizio della guerra. Certamente, la mattina del 24 febbraio lo shock è stato molto più grande, rispetto ad adesso: in 11 mesi di guerra la mente impara un po’ a reagire a queste notizie. Quel giorno, l’unica cosa che volevo gridare a tutto il mondo era: “Fate qualcosa!”. Però capivo che questo appello era rivolto soprattutto a me stessa: dovevo parlare al posto di tanti ucraini che non potevano più parlare perché la loro vita è stata interrotta da un proiettile, da un missile, oppure perché piangevano i propri cari.

Dovevo raccontare il loro dolore. Dovevo far parlare quelli che non sapevano a chi raccontare il loro dolore: coloro che scappavano dalla guerra, che aiutavano a sopravvivere milioni di persone oppure quelli che pregavano.

Per me non si trattava del coraggio di parlare (come è il tema di questa tavola rotonda), perché non c’è stato per me alcun pericolo, non correvo nessun rischio. Si trattava piuttosto della fiducia sia nelle persone con cui lavoro, sia nei nostri lettori e ascoltatori: se smetto di parlare del mio dolore e se non faccio parlare il mio popolo della sua sofferenza, vuol dire che non ho fiducia che qualcuno sia capace di ascoltare e capire questo dolore, di condividerlo, vuol dire che è sparita la fiducia nel fatto che possiamo costruire l’umanità e con la conseguenza che la violenza avrà raggiunto il suo obiettivo finale.

Per me si tratta proprio di questo: parlo perché ho fiducia nell’umanità, perché ho speranza.

L’incoraggiamento è arrivato anche dalla nostra direzione che ha visto la missione dei media vaticani nello stare accanto a coloro che soffrono, dare loro la voce e cercare qualche luce di speranza anche nel buio.

Dal primo giorno della guerra ho cominciato a cercare in Ucraina i contatti di persone che parlano altre lingue per condividerli con i colleghi delle diverse redazioni linguistiche perché potessero intervistarli. Alcuni li ho intervistati io. Il primo è stato padre Ruslan Mykhalkhiv, rettore del Seminario romano-cattolico di Kyiv. “C’è una tristezza in noi – diceva nell’intervista del 25 febbraio – ma non è quella che paralizza. La gente è spaventata e cerca di mettersi in fuga svuotando i conti bancari e facendo il pieno di benzina per mettersi in viaggio. Allo stesso tempo, noi come Chiesa siamo pronti all’emergenza. I nostri preti restano al loro posto e sono pronti ad accogliere la gente che scappa: apriamo anche i nostri seminari se serve, per dare alloggi sicuri”.

Quelle prime interviste mi hanno indicato la strada. Quando ho studiato Scienze della comunicazione all’università, non ho mai fatto nessun corso su come comunicare e fare giornalismo durante la guerra. Le persone come padre Ruslan sono stati i miei insegnanti, da loro ho capito come intervistare quelli che sono in guerra e soffrono. Lui ha parlato con grande dignità del suo dolore e del dolore della gente, senza disperazione, senza disprezzo per nessuno. Ho imparato da lui che lo shock e la tristezza non devono paralizzarmi, ma devo agire.

Ho iniziato a tradurre alcune interviste/testimonianze dall’ucraino in italiano e per me è stata una grande sorpresa vedere che i colleghi di altre redazioni le riprendevano e le traducevano nelle loro lingue. Certamente, senza il sostegno della nostra direzione che ha proposto alla nostra piccola redazione di prendere un altro collaboratore, e senza il supporto della mia redazione ucraina con il responsabile padre Timoteo, non ce l’avrei mai fatta, perché loro hanno preso su di sé il lavoro che facevo prima. Lavoravamo e continuiamo a lavorare, praticamente senza giorni di riposo. La stanchezza – sia fisica che mentale – è stata una sfida. Ma direi che non è stata la più grande.

La più grande sfida è stata quella della differenza della lingua, della cultura, della mentalità. Anche prima trovavamo alcune parole difficili da tradurre da una lingua all’altra, perché non esisteva il concetto stesso, come, per esempio la parola “carezza”: in ucraino, ma anche in altre lingue slave, non si dice “fare una carezza”, ma si dice “abbracciare”, “coccolare”. Un altro esempio della differenza linguistica: durante i mesi di guerra spesso ci siamo trovati a dover tradurre dall’italiano (o da altre lingue) la frase “conflitto in Ucraina”. I nostri colleghi italiani ci hanno detto che è sinonimo di guerra, però in lingua ucraina la parola “конфлікт” (conflitto) significa “discussione”, “lite”, e soltanto raramente si usa per definire un fenomeno più vasto.

Con l’inizio della guerra più che mai abbiamo capito quanto siano diversi non soltanto i nostri linguaggi ed i nostri contesti, ma anche i nostri modi di pensare e di comunicare. Ci siamo resi conto che lo stesso concetto di pace, che tutti desideriamo e che potrebbe sembrare così chiaro, viene interpretato in modi diversi nei contesti diversi. Quindi è stato fondamentale per noi confrontarci: non solo parlare, spiegare ai colleghi, ma anche ascoltarli per rendere comprensibili i sentimenti e l’esperienza del nostro popolo che vive la guerra.

Ogni intervista, ogni testimonianza, è stata per me una lezione di vita, imparavo come agire in questo tempo di guerra. Credo sia stato così anche per i miei colleghi. Da alcune interviste si poteva imparare come diventare più coraggiosi. Per esempio,

un sacerdote greco-cattolico di Mykolaiv, padre Taras Pavlius, che è anche un cappellano militare, raccontava di un giovane soldato che, come tanti altri, si è avvicinato a lui per chiedere la benedizione. Il soldato chiedeva di pregare per sua mamma, per i suoi fratelli e per avere più coraggio. “Quando ci sono forti bombardamenti, mi arrivano diversi pensieri… E ovviamente arriva la paura”, diceva il giovane. “Padre, preghi perché io possa avere più coraggio, più forza”. “Per me – diceva padre Taras – è stata la testimonianza del grande amore verso Dio e il proprio popolo”.

La testimonianza di Oleksandr, un giovane di Kharkiv, mi ha fatto capire che il senso della propria esistenza non si trova solo nelle riflessioni, nei libri, ma nelle azioni. Dai primi giorni della guerra nella sua città, che si trova a 30 km dal confine con la Russia, continuamente arrivano razzi e missili. “Dopo qualche settimana – ci ha detto – la mia mente non reggeva più tutto questo e ho capito che bisognava reagire per superare questo stato”. Con la sua bici ha cominciato a portare il cibo alle persone anziane del suo condominio e più tardi ha creato un’intera rete con altri volontari. “Dopo aver aiutato le persone una prima e una seconda volta – ha aggiunto – ho capito che in questo ho ritrovato me stesso … finché ho la possibilità, voglio continuare ad aiutare”.

Mi rimane impresso nella mente il racconto di suor Svitlana Matsiuk di Khmelnytskyj (Ucraina centrale) che va in ospedale a visitare i soldati feriti e aiuta i profughi che le hanno descritto le scene terribili di quando sono fuggiti dalle loro città. “Ascoltarli – ci ha detto – suscita tante domande su Dio e anche sulla natura del male. Prima della guerra sapevo che esisteva il male, ma non toccava la nostra vita come adesso. Questa è un’altra realtà nella quale c’è anche Dio, che lì soffre e viene crocifisso… E Dio mi ha risposto con una domanda: ‘Vuoi entrare con me in questa realtà?’. Io non voglio scappare da questo, creandomi dei mondi illusori, ma voglio entrarci, starci dentro per fare il maggior bene possibile”.

Le parole oneste di questa suora che non aveva paura di fare domande a Dio, mi hanno dato più forza, ho capito che anch’io non voglio scappare dalla realtà, anche se è molto dolorosa, è per me questo significa continuare a raccogliere queste testimonianze per farle ascoltare agli altri.

Il tema di queste Giornate a Lourdes è “Come possiamo farci sentire?”. Io credo che se impariamo ad ascoltare per primi, a trovare quello che è umano, quello che è profondamente buono e che ci rende simili gli uni agli altri – le nostre sofferenze, le paure, la voglia di vivere nonostante tutto – sapremo anche come aiutare gli altri ad imparare ad ascoltare. Io non avrei potuto fare il mio lavoro senza imparare a conoscere i miei colleghi, senza saperli ascoltare, anche quando non parlano.

Lourdes 25 gennaio 2023