Strage di Capaci. Il figlio del capo-scorta Montinaro: 30 anni con papà al fianco

Vatican News

Benedetta Capelli – Città del Vaticano

Preludio d’estate, la Sicilia è stretta nella morsa dell’afa, sono quasi le sei del pomeriggio del 23 maggio 1992, 500 kg di tritolo sono stati piazzati sull’A29, la strada che collega Palermo a Mazara del Vallo. Il mafioso Giovanni Brusca, oggi pentito, è pronto a far saltare in aria un corteo di auto che sta per arrivare. A bordo c’è il giudice Giovanni Falcone che, con impegno e dedizione, aveva inferto duri colpi alla criminalità e che per questo la mafia sceglie di toglierlo di mezzo con un attentato. L’esplosione sventra l’autostrada, nell’asfalto si apre una voragine di decine di metri.

Muoiono subito gli uomini della scorta che viaggiavano sulla prima delle tre auto blindate: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. In ospedale, poco dopo, moriranno Falcone e sua moglie Francesca Morvillo. Si salvano gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello che viaggiavano sull’automobile che chiudeva il corteo. Sopravvive l’autista Giuseppe Costanza che era all’interno dell’auto guidata dallo stesso giudice. Quel giorno tutti ricordano dove erano, cosa facevano ma anche il senso di disperazione e sconfitta che da lì a pochi mesi tornerà impetuoso con l’assassinio del giudice Paolo Borsellino, amico fraterno di Falcone. Quelle bombe scuotono anche Giovanni Paolo II che, nel 1993 ad Agrigento, dopo aver ascoltato il dolore dei famigliari delle vittime di mafia, si rivolge a chi calpesta il diritto alla vita.

Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!

Giovanni, lo stesso nome del giudice Falcone 

Giovanni Montinaro è un uomo che per destino o per sorte ha avuto un grande padre. Nella quotidianità tende a portare avanti il suo messaggio”. Poche parole, soppesate, dirette, cariche di orgoglio, riflessione e che indicano una missione: non dimenticare quanto accaduto e nemmeno la fortuna di aver accarezzato un papà per poco tempo; un tempo che però ha segnato tutta la vita. Giovanni trasmette una forza insolita per la sua età, sente sulle spalle la responsabilità di far conoscere il dolore che la mafia ha provocato ma anche il bene che ne è generato. Condivide l’impegno con sua madre Tina, rimasta vedova giovanissima e due bimbi: Gaetano di 4 anni e Giovanni di 21 mesi. Gira l’Italia, va nelle scuole, anima l’associazione “Quarto Savona 15”, il nome è un richiamo all’auto sul quale Antonio Montinaro viaggiava e dove ha trovato la morte. E il suo nome Giovanni è stato scelto proprio in onore di Falcone.

Ascolta l’intervista a Giovanni Montinaro

Trenta anni fa lei aveva solo due anni…

Io non ricordo neanche il momento in cui ho capito chi fosse mio padre, è come se lo avessi sempre saputo. Ero molto molto piccolo e di conseguenza non ho assolutamente ricordi. Sicuramente ho incominciato ad intuire che mio padre, una figura che non era più vicino a noi, era qualcosa di straordinario, qualcosa fuori dalla norma, ma lo capivo perché lo vedevo negli occhi degli adulti quando parlavano di lui, quando mi dicevano, sin da bambino, di essere orgoglioso e che da grande avrei capito meglio.

Lei e sua mamma siete impegnati in una battaglia civile molto importante che nasce da una perdita e che si trasforma in un impegno: quello di non dimenticare che la lotta alla mafia è una lotta che va combattuta ogni giorno soprattutto sul fronte dell’educazione. Come nasce la volontà di mettersi a disposizione di tanti ragazzi che possono subire la fascinazione della mafia o che invece vogliono impegnarsi per combatterla?

Nasce sicuramente dall’esempio di mia madre che ha sempre detto di voler continuare il percorso di mio padre.  L’unica differenza è che noi, essendo civili, ci occupiamo di altre tematiche ma siamo sulla stessa trincea, tutte le persone per bene sono sulla stessa trincea. E allora questo messaggio è proprio utile, è fondamentale anche per i giovani. E’ un messaggio che non è semplicemente quello della memoria, del ricordo, ma cerca di far diventare la nostra memoria personale, una memoria collettiva.  Conoscendo il passato, conoscendo quello che si è subìto, questi ragazzi insieme a noi fanno tante riflessioni che potrebbero sembrare ovvie ma, visto il lavoro che si deve fare, tanto ovvie non so. C’è poi la volontà di portare avanti il messaggio di papà che è quello dello schierarsi dalla parte di chi ha bisogno, dalla parte di chi è oppresso. Oggi fortunatamente ci dedichiamo alle scuole proprio perché c’è tanto lavoro che si fa sulla criminalità vera perché oggi la lotta alla mafia è affrontata in modo complesso e  porta anche tanti risultati.

In 30 anni c’è stato un cambio di mentalità? O almeno una crescita in questo senso?

Questo è un dato di fatto, chi non vede il cambiamento è miope. Basta pensare alla quantità di morti che c’erano 30 anni fa, pensare al fatto che noi oggi stiamo realizzando un’intervista dove si parla di mafia, dove c’è certezza del fenomeno, della sua esistenza, della malignità, delle sue radici queste erano tutte cose che 30 anni fa non esistevano. Il cambiamento veramente è anche pensare di incontrarsi in una giornata come il 23 maggio e festeggiare tutti insieme. Quello sforzo è un grande risultato perché 30 anni fa in questa città quando venivano sfortunatamente ammazzati degli uomini dello Stato ai funerali non ci andava nessuno. E allora se oggi noi non solo commemoriamo chi cade in servizio, ma lo commemoriamo di anno in anno prendendoci gli spazi pubblici è un dato di fatto che qualcosa è cambiato. I criminali son passati da essere cacciatori ad essere cacciati, è cambiato veramente tanto, forse io me ne accorgo di più perché ho sacrificato più degli altri.

Per lei chi è Giovanni Falcone?

Una persona di famiglia ma per il semplice motivo che mio padre lo ammirava molto, ma è di famiglia perché considero di famiglia tutte le vittime di mafia, considero di famiglia ogni singolo uomo che si è sacrificato per lo stesso motivo per cui si è sacrificato mio padre. Loro in quel momento sono diventati fratelli e allora è giusto che io li consideri come miei familiari e non mi potevano capitare famigliari migliori.

La mamma Tina che con lei porta avanti questa attività di divulgazione, di consapevolezza, di coscienza le ha mai detto una frase, le ha trasmesso un insegnamento particolare che in qualche modo ha segnato la sua vita?

Quando penso a mia madre la vedo che mi dice: “non ci hanno fatto niente”, perciò il messaggio che poi noi diamo e ci siamo sempre dati è proprio questo.  E’ quello che insegnano a mio nipote oggi che è solo un bambino.

La cosa bella che arriva sentendola parlare è la presenza viva di suo padre, si può pensare che tanto merito lo abbia sua madre che forse le ha fatto vivere questo papà pur nell’assenza…

Devo dare ragione perché tutt’ora e anche quando ero ragazzino lei mi diceva sempre: “Cosa penserebbe tuo padre? Pensa a tuo padre!” Era come se fosse dietro l’angolo, come se dovesse tornare a casa a fine giornata, siamo stati educati a pensare che lui comunque c’è, ci osserva e non ci giudica perché un padre non dovrebbe mai giudicare un figlio. Sicuramente ci guarda ed ha senso, per noi figli, assumere un atteggiamento corretto in tutto anche per questo.