Santi Giovanni e Paolo al Celio, Chiesa stazionale di venerdì 18 febbraio

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 Maria Milvia Morciano – Città del Vaticano 

Sul Celio, lungo il Clivus Scaurii, che conserva ancora il tracciato viario originario di epoca romana, solcato da arcate medioevali, si apre la piazza quadrangolare su cui sorge la basilica dei Santi Giovanni e Paolo.

La chiesa appare citata per la prima volta nel sinodo del 499 indetto da papa Simmaco con il nome di Titulus Pammachii o anche Titulus Byzantii, ma le vicende edilizie dell’area risalgono a tempi più antichi.

Quest’area in origine era formata da insulae, quartieri modesti tra I e II sec. d.C., con botteghe aperte lungo la strada e, nel III secolo, inglobate da una grande, unica residenza di cui  sono rimasti alcuni notevoli affreschi, a tema pagano e cristiano, visibili accedendo all’area archeologica delle Case romane del Celio. La domus, costruita dopo il 398 dal senatore Bizante o da suo figlio Pammachio, e in seguito utilizzata come domus ecclesiae, diede sepoltura ai martiri Giovanni e Paolo, che qui avrebbero subito il martirio, nel 362, sotto l’imperatore Flavio Claudio Giuliano – detto l’Apostata – ultimo imperatore pervicacemente attaccato al paganesimo. Il punto esatto sarebbe segnato da una lastra nel pavimento della basilica, visibile nella navata centrale.

Queste prime fasi della chiesa mostrano già un fitto susseguirsi di fasi destinate ad evolversi e mutare ancora nel tempo, interrotte dalle distruzioni dei visigoti di Alarico I, durante il sacco di Roma del 410, del terremoto del 442 e dal saccheggio dai Normanni nel 1084.

Tra XI e XII secolo furono promossi i lavori di restauro con l’aggiunta del portico, che soppiantò l’originario nartece, e il campanile, decorato da bacini di maiolica e da coppie di bifore, che si innalza sfruttando il podio del tempio romano, dedicato al divo Claudio dalla moglie Agrippina Minore. 

 L’edificio subì continui rimaneggiamenti nei secoli successivi, soprattutto quelli operati nel 1715 dal cardinale Fabrizio Paolucci.

Il cardinale statunitense Francis Joseph Spellman, agli inizi degli anni Cinquanta, ha fatto ripristinare la facciata nelle forme paleocristiane che vediamo oggi. Inoltre ha ornato la navata centrale con quelli che sono una caratteristica particolare della chiesa: due file di lampadari di cristallo provenienti dal Waldorf Hotel di New York.

Il portico si affaccia con una fila di otto colonne e capitelli di ordine ionico. La trabeazione, come nella basilica di San Giorgio al Velabro, è percorsa da un’iscrizione con la dedica del donatore ai due fratelli martiri. La galleria soprastante è stata costruita nel 1216.

Il portale, inquadrato da una cornice cosmatesca, è sormontato da un’aquila ad ali spiegate ed è “difeso” da due leoni accucciati.

Poco o nulla è riconoscibile dell’antico impianto paleocristiano: l’aspetto generale mostra una commistione di stili e periodi nell’insieme armoniosa ed elegante.  Sull’altare maggiore una vasca in porfido custodisce le reliquie dei martiri, mentre l’affresco dell’abside con il Cristo in gloria del 1588 è del Pomarancio. Nella basilica altre reliquie sono conservate dietro la fenestella oculis

Lungo le navate si susseguono cappelle con altari e pale dipinte. Tra queste seguiamo il filo dei santi uniti dalla stessa Congregazione, quella della Passione di Gesù Cristo, che officia la basilica e che ha qui la sua Curia.

I santi della basilica

Non si sa molto dei due martiri venerati nella basilica, al punto da essere talvolta scambiati con gli apostoli omonimi. I due fratelli, le cui vicende sono raccontate in una passio del IV secolo e riprese nella Legenda Aurea (LXXXII), hanno goduto però di larga diffusione, tanto che li troviamo effigiati nei mosaici della basilica di San Vitale Nuovo a Ravenna e le loro reliquie portate anche in Francia. Nel leggere questi racconti si può pensare che tale importanza sia stata attribuita loro perché di alto lignaggio e a contatto con i maggiori notabili della città, prima al servizio della figlia di Costantino, Costanza, poi perseguitati da Giuliano l’Apostata e infine fautori della conversione di Terenziano, colui che per ordine dell’imperatore li aveva messi a morte, segnando in modo figurato il declino definitivo della religione pagana.  

 Nella chiesa, in una cappella nella navata destra, riposano le spoglie mortali di san Paolo della Croce (1694 -1775), originario del Monferrato, fondatore nel 1720 della Congregazione della Passione di Gesù Cristo e delle monache claustrali Passioniste, che ebbe nel 1773 da papa Clemente XIV assegnata la basilica, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita.

Poco lontano, vi è l’altare con un dipinto di Giovanni Battista Conti raffigurante san Gabriele dell’Addolorata, un santo assisiate molto venerato in Abruzzo e nelle Marche, vissuto dal 1838 al 1862, dichiarato patrono della gioventù cattolica da san Pio XI. Invece all’inizio della navata sinistra, quasi a formare una diagonale ideale che attraversa tutta la basilica, vi è l’altare donato da Pio XII, adornato da una bella vetrata istoriata e un dipinto di artista sconosciuto che meravigliosamente rende il dolce volto della mistica Gemma Galgani (1878 -1903), la giovane santa passionista originaria di Lucca, della quale sono conservate qui numerose reliquie, come la sua biografia autografa. Santa Gemma ha spesso scritto di essere stata influenzata nella sua fede ardente proprio da san Gabriele. Nella basilica è sepolto anche il suo confessore, il venerabile don Germano Ruoppolo (1882-1970).  

Il Giubileo dei Passionisti 

Il 22 novembre dello scorso anno è iniziato il Giubileo dei Passionisti, in occasione del terzo centenario della Congregazione che si protrarrà fino al 1° gennaio 2022. Papa Francesco per questa occasione si rivolge ai passionisti: «Il vostro Fondatore, san Paolo della Croce, definisce la Passione di Gesù la più grande e stupenda opera dell’amore di Dio. Di quell’amore si sentiva bruciare e avrebbe voluto incendiare il mondo con l’attività missionaria personale e dei suoi compagni. […] La missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo. Quando sostiamo davanti a Gesù crocifisso, riconosciamo tutto il suo amore che ci dà dignità e ci sostiene, però, in quello stesso momento, se non siamo ciechi, incominciamo a percepire che quello sguardo di Gesù si allarga e si rivolge pieno di affetto e di ardore verso tutto il suo popolo. La nostra identità non si comprende senza questa appartenenza» (Messaggio ai Padri passionisti in occasione delle Celebrazioni giubilari per il terzo centenario della Congregazione, 15 ottobre 2020).