Chiesa Cattolica – Italiana

Ruffini: un buon giornalista deve conservare lo sguardo puro

Michele Raviart – Città del Vaticano

“Solo uno sguardo puro è capace di vedere, di riconoscere, di capire, di ricondurre a unità la complessità frammentata del reale, e dunque di conoscere”. Per questo “beati i puri di cuore”, che può sembrare la beatitudine “più apparentemente lontana dal mondo smaliziato dei giornalisti”, è quella che più può aiutare gli operatori della comunicazione a rendersi prossimi e a “recuperare l’essenza delle cose”. Un essenzialità che va cercata oltre l’apparenza e che, come ricordava la volpe al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, è “invisibile agli occhi”.

La bontà è il segreto del giornalista

Nella 55ma giornata della Comunicazioni Sociali Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, intervenuto a conclusione della “Settimana della Comunicazione” promossa dal Gruppo editoriale San Paolo, non solo ricorda che “un buon giornalista deve conservare uno sguardo puro”, ma contrasta l’idea “che il mestiere dei comunicatori richiede una freddezza incompatibile con il cuore tenero e che il giornalismo è più adatto ai duri di cuore”. Come sottolineava Ryszard Kaupscinski, è infatti la bontà il segreto di un grande giornalista.

Verso le periferie dell’esistenza

Prendendo spunto dalla preghiera del Papa alla fine del suo messaggio per la giornata di oggi – dal titolo “Vieni e vedi”, che “è il metodo più semplice per conoscere una realtà, per permettere che colui che ho di fronte mi parli” – Ruffini si sofferma su alcuni concetti chiave per il mondo della comunicazione. Il primo è “uscire”, un tema caro a Francesco fin dalla prima catechesi del Pontificato nel 2013, che vuol dire “andare incontro agli altri”, verso le “periferie dell’esistenza” e muoversi “noi per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quelli più lontani, quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione, di consolazione, di aiuto”.

In cammino per la verità

Il secondo è “incamminarci”. Camminare è infatti “la condizione normale del comunicatore”, che non dovrebbe fermarsi mai e “consumare la suola della scarpe”. Non solo perché “la ricerca della verità è comunque un cammino”, ma anche “per lasciarsi guardare dalla realtà” e “passare da uno sguardo totalmente esterno, a uno che vede dal di dentro, che permette di scoprire e raccontare una storia diversa”. La ricerca della “verità” – il terzo termine chiave – è infatti un cammino. Una verità che tuttavia non deve essere quella “miope”, “ferma all’apparenza”, ristretta al giudizio sommario, ma quella in cui “tutto sussiste, che tutto spiega, la verità crocifissa e risorta che vive ogni giorno nell’altro”. Una verità raccontata con le parole giuste, non quelle conformiste, pigre e consumate dal tempo.

Prendersi il tempo non è perdere tempo

Per comprendere fino in fondo, tuttavia, non c’è altro metodo che quello dell’”andare a vedere”, “non come viaggiatori distratti” né con “la presunzione di sapere già”, ma con “l’umiltà di non sapere” e soprattutto prendendosi tutto il tempo necessario. “La comunicazione che cerchiamo non può essere figlia della comunicazione ‘mordi e fuggi’”, ribadisce il prefetto. “Prendersi il tempo non è perdere tempo”, ma “serve a comprendere quanto sia spesso arrogante l’idea che il brandello di verità di cui siamo in possesso possa espandersi sino a ricomprendere da solo la verità tutta intera”. “L’era delle fake news”, infatti, “crea mostri nutrendosi di questa miopia”: un politico ruba e allora tutti i politici sono ladri, una persona che conosco ha avuto problemi con un vaccino quindi i vaccini fanno male.

Consumare le scarpe, non le parole

L’ultimo concetto fondamentale per una corretta comunicazione è quello dell’“onestà”, una parola “che ci chiede di vedere dentro noi stessi” e “ci mette davanti alle nostre responsabilità”. Il bivio è quindi quello tra “concentrarci su noi stessi come giornalisti, come comunicatori e raccontare i nostri fantasmi” e poter “invece andare a vedere, toccare e raccontare la verità di ciò che vediamo”, anche correndo il rischio di non capire, di essere ingannati e di sbagliarsi. In quel caso bisogna correggersi, e riprendere il cammino senza, appunto, “smettere di camminare nella realtà”, perché si possono “consumare le suole delle scarpe, ma non le parole”.

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