Chiesa Cattolica – Italiana

Processo vaticano, il cardinale Becciu si difende: non ho mai manipolato il Papa

Dichiarazione spontanea sulla questione del carteggio tra lui e Francesco emersa nell’udienza del 9 marzo. Il porporato ha presentato un’altra lettera con il Pontefice, non depositata agli atti dal promotore di Giustizia. Concluso il controesame al sostituto Peña Parra tornato sulla questione del mancato finanziamento dello Ior per rinegoziare il mutuo sul palazzo di Londra

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Si è aperta con una doppia dichiarazione spontanea – “una breve e una più corposa” – del cardinale Angelo Becciu la cinquantaduesima udienza del processo in Vaticano per la gestione dei fondi della Santa Sede. Udienza occupata principalmente dal controesame al sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Edgar Peña Parra, ascoltato già ieri come testimone. Proprio alle parole di Peña Parra nell’aula dei Musei vaticani si è riallacciato Becciu chiarendo che il mancato “passaggio di consegne” lamentato dall’attuale sostituto per evidenziare eventuali criticità, era dato dal fatto che in Segreteria di Stato “non esiste questa prassi”.

Il carteggio con il Papa

La seconda dichiarazione di Becciu ha riguardato invece il carteggio tra il porporato sardo e il Papa, prodotto dal promotore di Giustizia Alessandro Diddi nell’udienza del 9 marzo scorso. Dalle tre missive depositate agli atti, emergeva come Becciu avesse chiesto a Francesco di scagionarlo dall’accusa di averlo “imbrogliato”, dichiarando che era stato lui stesso – il Papa – ad autorizzare l’allora sostituto per le vicende del palazzo di Londra e dei pagamenti alla manager sarda Cecilia Marogna. Becciu domandava quindi al Pontefice di ritrattare alcune precedenti affermazioni in cui ribadiva “il pronunciamento negativo” per entrambe le operazioni.

“Non sono un manipolatore, non ho mai manipolato nessuno, tantomeno il Santo Padre”, ha chiarito il cardinale, sottolineando che questo scambio di lettere era destinato a rimanere privato dal momento che conteneva “indicazioni sensibili” sulla cosiddetta “operazione umanitaria”, cioè la liberazione di una suora colombiana rapita in Mali. Vicenda per la quale il Papa aveva sollevato Becciu dal segreto pontificio. Il cardinale aveva quindi ritenuto opportuno, “per sensibilità istituzionale e a tutela della Santa Sede”, di non diffondere tali lettere.

Deposito parziale

Una volta finite agli atti, il porporato ha però voluto chiarire che Diddi ha divulgato “in maniera parziale” la corrispondenza. Mancava cioè una prima lettera, firmata da Becciu e datata il 20 luglio, che faceva seguito a una telefonata del giorno prima in cui il Pontefice avrebbe chiesto direttamente al suo ex collaboratore di mettere per iscritto dei testi da sottoporgli ed eventualmente firmare. “Come mi ha chiesto, le invio le due dichiarazioni da firmare quanto prima perché dovrò depositarle in Tribunale”, si legge nella missiva riprodotta da Becciu. In altre parole, stando al cardinale, l’iniziativa di scrivere le due note sarebbe stata del Papa stesso. Francesco, però, nelle successive lettere esordiva scrivendo di essere rimasto “sorpreso” dalla richiesta di Becciu. Quelle parole mi hanno “disorientato”, ha detto il porporato, come pure il resto del testo scritto, a suo dire, con una terminologia diversa da quella abitualmente usata da Francesco.

Una immagine del processo nell’aula dei Musei vaticani

Il controesame a Peña Parra

Dopo questa parentesi è seguito il controesame a monsignor Peña Parra, durato circa quattro ore. Il prelato è stato interrogato di nuovo sulla questione del diniego dell’Istituto per le Opere di Religione alla richiesta della Segreteria di Stato di un finanziamento di 150 milioni di euro che serviva a rinegoziare un mutuo sul Palazzo di Londra che faceva spendere “un milione al mese” alla Santa Sede.

Nel dettaglio, Peña Parra ha spiegato che dopo il “no” dello Ior al finanziamento – giunto dopo diversi mesi di rassicurazioni: “I soldi sono nel cassetto” – lui si era mosso per cercare altre banche. Due istituti di credito di alto livello diedero la loro disponibilità: il primo immediata, il secondo dopo qualche mese. La mens era però di voler favorire una “soluzione interna” al Vaticano; si decise perciò di rivolgersi all’APSA che aprì una linea di credito. “Così siamo passati da pagare un milione al mese a 800 mila euro l’anno”, ha affermato il sostituto. Tutto si è concluso nel settembre 2020 e l’APSA stessa ha poi estinto il precedente mutuo sul palazzo di Sloane Avenue, una volta entratane in possesso a seguito del motu proprio del Papa che trasferiva il patrimonio della Segreteria di Stato al Dicastero. A causa tuttavia dei vari rimandi, da maggio 2019 a settembre 2020 la Santa Sede ha “perso” 24 milioni: 18 mensilità, più le varie spese di gestione pari a circa 4 milioni. Fino alla vendita del palazzo, avvenuta nel luglio 2022, era stato dunque acceso un nuovo mutuo, ma molto meno esoso.

Controlli

Sempre in merito alla questione del negato finanziamento dello Ior, è stato chiesto al sostituto se fosse vero che si era rivolto a Gianni Ferruccio Oriente (già citato nell’udienza di ieri), legato, sembra, ai Servizi Segreti italiani, per “mettere sotto controllo” il direttore dello Ior, Gian Franco Mammì. La circostanza risultava da una chat sul cellulare dell’ex segretario di Peña Parra, monsignor Mauro Carlino (imputato). L’arcivescovo ha spiegato che, “molto sorpreso dell’atteggiamento dello Ior”, la sua preoccupazione più grande era che ci potessero essere dei “contatti” tra l’Istituto e Gianluigi Torzi, il broker (imputato) che manteneva il controllo totale del palazzo londinese attraverso mille azioni con diritto di voto. “Ero stato informato che Torzi aveva detto in riunione a Londra che usciva da porta ma rientrava dalla finestra. Ho avuto il dubbio che questo atteggiamento anomalo fosse dovuto a qualche unione con il gruppo contrario a noi. Per questo ho chiesto al signor Oriente e al comandante della Gendarmeria (allora Giandomenico Giani, ndr) di fare un rapporto. Non sono interessato alla vita del direttore, ma era dovere mio come sostituto vedere se lo Ior fosse stato in qualche modo dentro a questa faccenda. L’ho fatto e, se fosse il caso, lo rifarei. Mi sembrava un dovere”.

Nessun ricatto

Rispondendo a una domanda “diretta” di Paola Severino, parte civile del Dicastero, monsignor Peña Parra ha anche chiarito di non aver mai chiesto il finanziamento perché “ricattato” da qualcuno: “Il contrario lo dice la storia. Il mutuo è stato pagato alla società a cui si doveva pagare”.

La vicenda Marogna

Infine il sostituto, rispondendo a una domanda del presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, ha confermato di aver autorizzato la serie di versamenti pari a 575 mila euro sul conto della Logsinc, società intestata a Cecilia Marogna. Di tali pagamenti ebbe per la prima volta notizia da monsignor Alberto Perlasca, responsabile dell’Ufficio Amministrativo, testimone chiave del processo: “Era venuto con un ordine di trasferimento bancario. Non c’era nome, niente, solo la ditta. ‘Questa è una cosa che Becciu sta portando avanti da tempo. Non ti ha parlato di questo?’, mi disse”.

Peña Parra rispose di non firmare nulla senza prima averne parlato col Papa. Ricevuto il placet, il sostituto ne ha voluto comunque parlare con lo stesso Becciu che gli spiegò che i versamenti servivano per la liberazione di una suora rapita, tema che aveva “seguito” da sostituto. I versamenti sono durati fino a luglio 2019. “Durante il colloquio con Becciu è stato fatto il nome di Cecilia Marogna?”. “No”, ha risposto Peña Parra, “l’ho saputo dai giornali”.

Le prossime udienze si terranno il 29, 30 e 31 marzo.

L’udienza del processo nell’aula dei Musei Vaticani

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