Non solo economia: a 30 anni dal Trattato di Maastricht

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Fausta Speranza – Città del Vaticano

Il 7 febbraio 1992 i dodici Stati membri dell’allora comunità Europea sottoscrivevano – nella città olandese di Maastricht, nei Paesi Bassi sulle rive della Mose – il Trattato anche noto come Trattato sull’Unione europea (Tue), che comprendeva 252 articoli nuovi, 17 protocolli e 31 dichiarazioni, che sarebbe entrato in vigore il 1 novembre 1993. Con il Trattato di Maastricht si stabilivano i tre pilastri della nascente Ue, fissando anche le regole politiche e i parametri economici e sociali necessari per l’ingresso dei vari Stati aderenti, i cosiddetti parametri di convergenza di Maastricht.

Le principali novità

Col Trattato si creavano le premesse per la moneta unica europea, l’euro, e venivano istituiti la Banca centrale europea (Bce) e il Sistema europeo di banche centrali. Si avviava la politica estera e di sicurezza comune (Pesc) stabilendone con l’art. 11 gli obiettivi: sviluppo della democrazia e dei diritti dell’uomo attraverso un ampliamento dello spazio in cui ciò avviene. Nasceva anche l’Ufficio europeo di polizia, Europol, mentre in campo giudiziario e di affari interni venivano autorizzate nuove  procedure riguardo all’accesso di cittadini di Stati terzi nell’Unione e maggiore cooperazione doganale verso l’esterno, con il rafforzamento della lotta al terrorismo, al traffico di droga e alla grande criminalità.  Altro contenuto importante: col Trattato si introduceva la “Cittadinanza dell’Unione europea”, riconoscendo cioè che è cittadino dell’Unione chiunque possieda la cittadinanza di uno Stato membro, rafforzando tra l’altro il diritto di stabilimento, circolazione e soggiorno nel territorio Ue. Il Trattato garantiva un aumento dei poteri del Parlamento europeo, attraverso l’aggiunta della procedura di codecisione: il Parlamento otteneva il potere di approvare gli atti legislativi comunitari insieme al Consiglio, poi rafforzata dal Trattato di Lisbona del 2009. Veniva poi creato un Comitato delle regioni composto dai rappresentanti delle entità regionali e locali con poteri consultivi al fianco di Commissione e Consiglio nelle materie di interesse regionale.  Diverse competenze comunitarie venivano inoltre ampliate, come la politica di coesione economica e sociale che si arricchiva di un fondo ad hoc per finanziare progetti di sviluppo economico nelle regioni più arretrate; nel campo della legislazione sociale veniva adottata la regola della maggioranza qualificata nel processo decisionale, salvo per le questioni più spinose. Stesso discorso nell’ambito della ricerca, sviluppo e ambiente. Veniva riconosciuta come politica comunitaria anche la protezione dei consumatori e lo sviluppo delle reti transeuropee (trasporti, comunicazioni, energia).

Il dibattito sul piano dell’economia

Con il Trattato di Maastricht si stabiliva inoltre che, dopo la creazione dell’Istituto monetario europeo (Ime), entro il 1º gennaio 1999 sarebbe nata da esso la Banca centrale europea (Bce) e il Sistema europeo delle banche centrali (Sebc) che avrebbe coordinato la politica monetaria unica. Venivano distinte due ulteriori tappe: nella prima le monete nazionali sarebbero continuate a circolare pur se legate irrevocabilmente a tassi fissi con il futuro Euro; nella seconda le monete nazionali sarebbero state sostituite dalla moneta unica.Per passare alla fase finale ciascun Paese avrebbe dovuto rispettare cinque parametri di convergenza tra i quali il famoso rapporto tra deficit pubblico e Prodotto interno Lordo (Pil) non superiore al 3 per cento. Un bilancio a 30 anni dal riconoscimento di questi parametri lo traccia con noi Paolo Guerrieri, docente presso gli atenei Paris School of International Affairs di Science Po e Sapienza di Roma:

Ascolta l’intervista con Paolo Guerrieri

Innanzitutto Guerrieri chiarisce che l’adozione della moneta unica non era stata accompagnata da politiche di gestione comuni: un problema al quale si è dovuto far fronte negli anni e che si è palesato drammaticamente con la crisi del 2008. Il punto è che tanto è stato fatto – afferma – ma solo nell’emergenza della pandemia sono stati sospesi i parametri di stabilità. Oggi dunque si tratta di decidere come procedere per il futuro: tornare a quei paramentri è impensabile – sostiene con la maggioranza degli economisti europei – ma se  vanno certamente rivisti i cosiddetti parametri  e il principio del 3 per cento massimo di rapporto tra debito pubblico e Pil  – avverte – non si può teorizzare la deregulation. Un sistema di regole è necessario anche se devono essere regole aggiornate, perché i mercati e soprattutto quelli internazionali hanno bisogno di sapere che ci sono vincoli che danno in qualche modo garanzie. In definitiva, Guerrieri avverte che c’è ancora lavoro da fare per una vera unione economico-monetaria e non solo monetaria.

Guerrieri supporta il discorso ripercorrendo alcune tappe dei 30 anni trascorsi da Maastricht. L’economista ricorda che crescita, stabilità, convergenza sono i termini che si ritrovano in tutti gli annali che raccontano – cifre alla mano – l’economia europea da quel gennaio 1999, in cui entrava in vigore la valuta comune, fino all’arrivo della crisi in Europa nel 2008-2009, riverbero di quella scoppiata nel 2007 negli Stati Uniti. Una gravissima crisi, peggiore nei suoi effetti di quella degli anni Trenta dello scorso secolo. Prima che scoppiasse, in Europa c’era una situazione più che favorevole: dalla Germania alla Grecia gli stessi tassi di interesse. Mai avvenuto prima. Questo fattore, insieme con la stabilità dettata dalla moneta unica sui mercati mondiali, assicurava crescita. La cosiddetta Eurozona si allargava e si è arrivati all’adozione dell’Euro da parte di 19 paesi su 27 pensando di arrivare all’adesione di tutti. Quei problemi però di “debolezza strutturale” dell’euro si sono dunque manifestati proprio quando c’è stata la crisi mondiale.  La reazione immediata alla crisi del 2007-2008 messa in atto negli Stati Uniti, che avevano un sistema bancario unificato, non è stata possibile negli stessi veloci ed efficaci termini in Europa – ricorda Guerrieri – perché in Ue ogni singolo paese ha fronteggiato a livello nazionale l’emergenza, prima che ci si attivasse per creare l’Unione bancaria che mancava. Poi – spiega – sono state prese anche altre decisioni importanti, come l’istituzione del meccanismo comune di stabilizzazione, definito dalla sigla Esm, che prevede fondi e strumenti precisi. E’ anche grazie a questi strumenti – spiega – che nel caso della crisi provocata dalla pandemia la risposta delle istituzioni europee è stata efficace, molto più tempestiva  di quella arrivata dopo la crisi economica scoppiata circa dieci anni fa e prima ancora nel 2008 perché appunto il processo per la moneta unica è andato avanti. Oggi la ripresa in Europa è evidente -sottolinea Guerrieri – anche se  va consolidata.

Da non dimenticare il principio di sussidiarietà  

Vera innovazione con il Trattato che compie trent’anni è stata la definizione del principio di sussidiarietà. Il concetto sostiene in sostanza che, nei settori che non sono di sua esclusiva competenza, l’Unione interviene laddove l’azione dei singoli Stati non è sufficiente al raggiungimento dell’obiettivo. Un principio che si ritrova all’interno di un Paese nel rapporto tra Stato e istituzioni locali. Interessante è ricordare i fondamenti teorici di tale principio per capirne le potenzialità al di là di modalità e margini di applicazione e di possibili strumentazioni ideologiche. Per farlo ci aiuta Mario Sirimarco, docente di Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Teramo:

Ascolta l’intervista con Mario Sirimarco

Sirimarco ricorda che dopo periodi di sostanziale silenzio sul tema, negli ultimi due o tre decenni diverse problematiche hanno riproposto prepotentemente il tema del principio di sussidiarietà: il processo di costruzione dell’Europa come entità politica e non più solo come mercato comune; il disfacimento del comunismo nei Paesi dell’est europeo; la crisi dello stato sociale, nella sua versione di Stato provvidenza, nei Paesi occidentali; la discussione intorno a una progettazione istituzionale più o meno federalista in Italia; la necessità di ripensare la fenomenologia dei rapporti tra lo Stato, gli organismi territoriali e i privati, basato su un nuovo modo di intendere i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione nella prospettiva di un rapporto di parità delle parti o comunque di un maggiore coinvolgimento dei cittadini; il fenomeno della info-globalizzazione e della crescente complessità della società e delle sue problematiche economiche ed ambientali. Sirimarco spiega che a tutti questi livelli si ritrova al cuore del dibattito la questione dell’autorità, del suo esercizio, dei suoi limiti, che è il vero punto focale del principio della sussidiarietà, sottolineando che ovviamente si deve distinguere tra la formulazione teorica e i tentativi di applicazione. Sirimarco cita a questo proposito lo snaturamento del principio avvenuto con il corporativismo fascista. E poi mette in luce anche i limiti di tante occasioni in cui l’ordinamento giuridico europeo ha proclamato  solennemente il principio, ma poi ha prodotto una normazione non esattamente all’altezza.

Le radici nel bene comune

Sirimarco rivendica una prospettiva essenziale per il giurista per dare un vero significato alla formula del principio: quella di riscoprirne, al di là di antichi presupposti filosofici, le radici della formulazione nei tempi moderni. In questo senso – spiega  – in passato sono state evidenziate  alcune assonanze, se non vere e proprie identità di formulazione, tra la Carta del lavoro (del 1927) e la Lettera Enciclica Quadragesimo anno (del 1931)  quasi a voler rivendicare una sorta di matrice fascista al principio della sussidiarietà, dimenticando però – avverte – la Enciclica Rerum Novarum, con tutta la riflessione successiva. Significherebbe ignorare  – aggiunge – la figura di Antonio Rosmini, non considerare o sottovalutare Luigi Sturzo, non tenere conto, insomma, di tutto uno sforzo culturale, anche grazie all’influenza di pensatori stranieri come Maritain, teso a stabilire un dialogo, un ponte tra mondo cattolico, pur nella sua straordinaria varietà sul piano della visione sociale e politica, e il mondo moderno. A questo proposito Sirimarco cita una studiosa in particolare che ha contribuito a   ritessere le fila del discorso: Chantal Millon-Delsol che – secondo Sirimarco – ha ben chiarito che il principio in questione rappresenta proprio un tentativo di gettare un ponte tra cattolici e modernità.

Dunque, Sirimarco mette in evidenza che il diritto della sussidiarietà, nel senso di diritto-dovere di ingerenza dello Stato, ha come fondamento la dignità della persona e il bene comune. La sua finalità deve essere quella di valorizzare la persona ponendola al centro della dimensione sociale e politica come soggetto responsabile e creativo, come singolo e nelle formazioni sociali in cui si trova ad operare.

Controcorrente

Sirimarco mette in luce i limiti che subito si ritrovano guardando alla realtà dei fatti: parla infatti di un contesto culturale di progressiva de-responsabilizzazione del cittadino che si vorrebbe mero individuo-consumatore-spettatore in una prospettiva che definisce di “una democrazia del marketing o dell’audience”.