“Non si può pensare a una sicurezza contro gli altri, ma solo con gli altri”

Vatican News

ANDREA TORNIELLI

“In un mondo globalizzato non ha senso pensare ad una sicurezza ‘contro gli altri’, perché solo una sicurezza ‘con gli altri’ è possibile”. Lo afferma il professor Mario Primicerio, matematico, già sindaco di Firenze negli anni Novanta, che accompagnò Giorgio La Pira ad Hanoi, all’incontro con Ho Chi Minh, quando la guerra del Vietnam era già iniziata. Primicerio è stato presidente della Fondazione Giorgio La Pira. A lui abbiamo chiesto di commentare gli appelli di Francesco e quali soluzioni negoziali vede possibili per il conflitto in Ucraina che si è aperto con l’aggressione russa.

All’Angelus di domenica 17 luglio il Papa ha detto: “Prego e auspico che tutti gli attori internazionali si diano veramente da fare per riprendere i negoziati, non per alimentare l’insensatezza della guerra”. Perché è così difficile il negoziato?

Essenzialmente perché, come il Papa ha detto nella stessa occasione, “la guerra (…) uccide la verità e il dialogo” e lascia in vita soltanto l’illusione che con lo strumento militare sia possibile risolvere le controversie internazionali. Bisogna invece rendersi conto che è impossibile, in particolare nel caso del conflitto in Ucraina, una soluzione che veda un vincitore e uno sconfitto. D’altra parte sarebbe inaccettabile una vittoria della Russia, che sarebbe la sconfitta della legalità internazionale, come pure una sua sconfitta, che provocherebbe una situazione di instabile revanscismo dalle conseguenze imprevedibili. L’unica soluzione passa dunque dal negoziato a partire da un cessate-il-fuoco immediato e senza condizioni, con monitoraggio internazionale, che ponga fine alle atrocità della guerra: “vim fieri veto” (vieto l’uso della violenza, ndr.) come recita l’interdictum del giurista romano Gaio che Giorgio La Pira citava spesso.

Molte autorevoli voci sostengono che non sia possibile incominciare a parlare di pace finché la Russia si rifiuta di farlo prima di aver preso una parte del territorio ucraino e l’Ucraina si rifiuta di farlo fintanto che le truppe russe occupano il suolo del Paese. Posizioni che appaiono inconciliabili.

Ma il compito della politica – e, nel caso specifico, quello della diplomazia – è proprio quello di rendere possibile il desiderabile e quindi di ricercare i possibili punti di incontro in cui ciascuno dei contendenti rinunzi ad una parte delle sue richieste iniziali, pur potendosi presentare alla propria opinione pubblica come sostanziale vincitore della contesa.

Qual è e quale dovrebbe essere, secondo lei, il ruolo della diplomazia e in particolar modo di quella europea in questo momento?

Io credo che una diplomazia di mediazione debba evitare di schierarsi aprioristicamente sulla difesa ad oltranza della posizione di uno dei due contendenti; bisogna guardarsi dalla tentazione di considerare questo conflitto come una “guerra santa” contro “l’impero del male” di reaganiana memoria. Questo però non deve significare l’attestarsi su un giudizio di equidistanza tra i due. Quello che si può definire “pacifismo politico” deve realisticamente partire dalla situazione presente ma proporre una prospettiva che consenta di superarla.

Quali proposte negoziali vede possibili per arrivare a una tregua e poi a costruire una pace duratura?

La situazione concreta, che ci piaccia o no, ci vede tornati indietro di decenni a una politica di contrapposizione e di potenza. La Russia insegue nostalgicamente il suo passato ruolo di grande potenza internazionale e vede con sospetto ogni minaccia ai propri confini orientali. In questa situazione è ragionevole proporre una sorta di “fascia di neutralità” che vada dal Baltico al Mar Nero. E richiamarsi ai principi fondamentali della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa che si basano sulla integrità territoriale degli stati membri e al tempo stesso prevedono ampie autonomie per i territori abitati da minoranze etniche. Questa è la ragione per cui ritengo inopportuno, almeno in questo momento, ogni allargamento della NATO e suggerisco di considerare la possibilità di una moratoria relativamente alle domande di adesione di Svezia e Finlandia.

Secondo lei si è fatto il possibile per impedire questa guerra prima che scoppiasse e poi per fermarla una volta scoppiata?

Non so dire se fosse possibile evitare lo scoppio del conflitto; sembra però che, da parte di Russia e Stati Uniti, abbia al contrario prevalso una sorta di “nostalgia di storici steccati” con la speranza che il “mostrare i muscoli” potesse pagare in termini di consenso interno. Purtroppo in tutto questo, l’Europa ha brillato per la sua assenza. Incapace di elaborare ed esprimere una politica estera, ha dimostrato di essere ancora ferma all’Europa delle Patrie di memoria gollista e di essere incapace di diventare un’Europa dei popoli. E dire che, proprio in questo tragico frangente dell’invasione dell’Ucraina, avrebbe potuto – e forse potrebbe ancora – giocare un ruolo decisivo. Certamente è l’Europa a pagare il prezzo più alto di questa guerra. Significa qualcosa l’andamento del cambio euro-dollaro degli ultimi 4 mesi?

All’Angelus di domenica 3 luglio Papa Francesco ha chiesto una pace che non sia più “basata sull’equilibrio degli armamenti, sulla paura reciproca”. Quale futuro ci aspetta dopo questo conflitto nel cuore dell’Europa?

Occorre reagire alla tentazione di credere alla ineluttabilità della guerra e di assuefarci ai suoi orrori. In un mondo globalizzato non ha senso pensare ad una sicurezza “contro gli altri”, perché solo una sicurezza “con gli altri” è possibile. Non ci salveranno autarchiche autosufficienze ma soltanto la presa di coscienza della interdipendenza in un comune destino. Possono sembrare sogni utopistici, ma – come diceva La Pira e come ogni giorno ci insegna il magistero di Papa Francesco – in definitiva la storia si arrenderà all’utopia.
  

I media vaticani pubblicano degli approfondimenti sulle parole di Papa Francesco sulla guerra in Ucraina e sulle possibili soluzioni per un negoziato: gli intervistati esprimono le loro opinioni che non sono attribuibili alla Santa Sede.