Chiesa Cattolica – Italiana

Non chiamiamola lebbra

Eliana Astorri – Città del Vaticano

E’ conosciuta come lebbra ma il termine oggi non è idoneo perché evoca un passato fortemente stigmatizzante per chi ne era affetto. Gli hanseniani, dal nome del dermatologo Gerhard Hansen che identificò il batterio, dovevano portare un campanellino per essere localizzati e non avvicinati.

Ci sono zone del mondo dove ancora è presente? Il professor Roberto Cauda, Ordinario di Malattie Infettive dell’Università Cattolica Sacro Cuore, sede di Roma, ricorda che il Morbo di Hansen è una delle malattie di cui attualmente si parla di meno, a causa della pandemia del Covid-19.

Ascolta l’intervista al prof. Roberto Cauda

R. – Celebriamo la 68ma Giornata Mondiale della Lebbra che fu istituita da Raoul Follereau. E’ una giornata dal significato importante, tanto più importante oggi che stiamo vivendo una pandemia come quella del Covid-19 che, purtroppo, inevitabilmente, ha un po’ oscurato, così come avvenuto per la Giornata dell’Aids, il passato primo dicembre, malattie che hanno ancora un grande impatto sulla umanità. Giustamente e correttamente lei ricorda che la lebbra oggi fa molto meno paura di quanto non facesse qualche decennio fa. Infatti, se noi guardiamo i numeri relativi alla lebbra, che peraltro conta ancora 200mila contagi all’anno, è praticamente confinata in aree geografiche ben definite come l’India, il Brasile e l’Indonesia. Da noi non ci sono più casi autoctoni, anche se mi permetto qui di ricordare, proprio a testimonianza di un passato recente con pochi casi in Italia, la presenza di due lebbrosari: uno a Genova e una Gioia del Colle che hanno ancora oggi in cura qualche decina di persone.

Evidentemente il termine lebbra, si direbbe oggi, non politically correct, anche se proprio deriva sia dal greco ‘lepròs’, che vuol dire squamoso a indicare una delle due caratteristiche principali di questa malattia che colpisce la pelle determinando, purtroppo, delle deformazioni. Da qui un certo stigma che identifica il malato affetto da malattia Hansen e colpisce in modo uguale anche i nervi. Mi permetta di ricordare che la lebbra è una malattia antichissima che ha le sue origini, addirittura, nella Bibbia. Poi, anche qui bisognerà fare un distinguo se la lebbra, malattia che noi oggi conosciamo nella forma cutanea e nervosa, fosse la stessa di quella descritta, ad esempio, nei testi biblici o diversa. Se noi facciamo un salto ideale di qualche secolo, la ritroviamo in forma epidemica, anche se è a bassa contagiosità, nel XIII secolo. La sua presenza è legata, ad esempio, alle Crociate. Baldovino IV d’Angiò era affetto da lebbra, era il cosiddetto ‘re lebbroso’. Mi permetto qui ricordare che c’è stata una rappresentazione cinematografica su questa figura dell’ultimo re di Gerusalemme e sempre un po’ mutuata anche da quelli che sono gli aspetti sia cinematografici che pittorici e letterari. I pazienti che chiameremo lebbrosi, anche se sarebbe più giusto chiamarli hanseniani nel periodo di massima diffusione della lebbra, cioè nel periodo dell’Alto Medioevo, avevano dei vestiti molto particolari, avevano un campanello che teneva lontane le persone.

Per questo, quindi, nel nostro inconscio, anche se oggi la malattia di Hansen o lebbra, come si voglia definire, è una malattia curabile con successo con dapsone e rifampicina, due farmaci a bassissimo costo e questo è un elemento importante perché sono colpiti Paesi con poche risorse economiche e, quindi, avere farmaci efficaci a basso costo è un valore aggiunto. Non fa più paura perché anche nel mondo la curva sta diminuendo, sta veramente decrescendo, però teniamolo presente, le giornate come queste sono importanti per ripensare, anche in epoca di Covid 19, all’esistenza di tanti altri malati che forse hanno meno voce rispetto ad altri ma che esistono e che meritano il massimo dell’attenzione.

Un suo commento sull’attuale pandemia da coronavirus. Perché il virus si trasforma e dà origine alle mutazioni che tanto preoccupano in relazione all’efficacia del vaccino?

R. – Un virus per sua natura, replicandosi, muta. Siccome in questo momento per Covid-19 si parla di 100 milioni di contagi al mondo, si può immaginare quale frequenza di mutazioni, replicandosi, questo virus ha. Anzi, siamo stati, si fa per dire, fortunati che non sia un virus come l’influenza che si replica facilmente. Le mutazioni ci sono, sono state descritte, però, la stragrande maggioranza delle mutazioni che danno poi origine alle varianti, sono mutazioni prive di un significato sia epidemiologico che clinico. Però, esistono delle mutazioni: la prima mutazione che è stata descritta è la D614G, quella che ha reso il virus che circolava a Wuhan più trasmissibile in Europa e nelle Americhe, è avvenuta probabilmente nei primi mesi o nelle prime settimane della prima ondata; poi, in questa seconda ondata, tengono banco le mutazioni inglesi, quella sudafricana, le mutazioni brasiliane. Avvengono, e quando avvengono, danno una maggiore capacità, in questo caso, di trasmissibilità, tendono a prendere il sopravvento sulle altre. La buona notizia è che ci sono quasi quotidianamente delle segnalazioni che ci dicono che il virus mutato non perde la sua capacità di essere bloccato dai vaccini, quindi, fino ad oggi le mutazioni non hanno un impatto sull’efficacia dei vaccini, ma hanno un impatto sulla trasmissibilità. Mi permetta di ricordare da un’emittente come la Radio Vaticana così attenta agli aspetti, non solo sanitari, ma etici e di solidarietà, quello che è stato più volte l’invito di Papa Francesco, cioè di rendere il vaccino anti-Covid-19 disponibile in modo universale e per tutti. Oltre alla giusta solidarietà tra i popoli, ci sono anche delle ragioni sanitarie. Infatti, quanto più si vaccinano le persone, in qualunque parte del mondo queste vivano, quanto più si riduce il rischio che il virus, replicandosi, possa determinare mutazioni e con esse l’insorgenza di varianti che potrebbero diventare non suscettibili agli attuali vaccini.

Exit mobile version
Vai alla barra degli strumenti