Nigeria, l’attacco frutto di una strategia di destabilizzazione

Vatican News

di Giulio Albanese

Quanto è avvenuto ieri nella Chiesa parrocchiale dedicata a San Francesco, nella città di Owo, nello stato nigeriano di Ondo, è ripugnante: l’uccisione, durante la celebrazione dell’Eucaristia domenicale di decine di fedeli, tra i quali donne e bambini. Sebbene l’attentato terroristico non sia stato ancora rivendicato, il movente del massacro potrebbe ascriversi alle sanguinose tensioni interetniche e interreligiose tra i pastori nomadi Fulani e quelle più sedentarie dedite all’agricoltura come gli Yoruba.
 

I primi, molto diffusi nella fascia saheliana, da tempi ancestrali, si spingono verso meridione in cerca di pascoli e trovano l’opposizione delle popolazioni stanziali e delle autorità locali. Secondo fonti locali, la barbara uccisione di così tanta gente, che innocentemente partecipava alla Santa Messa, sarebbe stata ideata con l’intento di respingere in modo violento il «rigoroso rispetto della legge sul pascolo aperto», imposto dal governatore dello Stato dell’Ondo, Oluwarotimi Akeredolu. Sta di fatto che già in passato i Fulani avevano compiuto razzie d’ogni genere, ma mai si erano spinti così a meridione nella Repubblica federale nigeriana, organizzando un attentato che, nella sua dinamica, richiama quelli perpetrati dalla più nota organizzazione islamista Boko Haram.

Lo scenario è dunque complesso e comunque fortemente legato a questioni socioeconomiche irrisolte che rendono i processi d’inclusione sempre più difficili da dirimere. Certamente, il fatto che ieri l’obiettivo dei terroristi sia stata una chiesa cattolica porta alla ribalta ancora una volta una strategia ben consolidata in Nigeria e in altri Paesi dell’Africa subsahariana. Quella perseguita  da non pochi gruppi sediziosi che strumentalizzano la religione per fini eversivi, con l’intento dichiarato di destabilizzare lo stato di diritto.

D’altronde, quella dei Fulani, è una delle tante componenti armate che in questi anni hanno insanguinato la Nigeria, terreno di scontro tra gruppi jihadisti e reparti dell’esercito regolare nel nord; per non parlare delle bande di saccheggiatori e rapitori nel nord—ovest e nel centro; mentre il sud—est è teatro di azioni sovversive da parte di gruppi armati di matrice separatista. Ancora una volta, pertanto, si pone la vexata quaestio dell’integrazione sociale all’interno del più popoloso paese dell’Africa subasahariana (oltre 200 milioni di persone vivono in un territorio di 923.769 chilometri quadrati e la densità abitativa è di 223 abitanti per chilometro quadrato), con straordinarie potenzialità economiche ma profondamente segnato dalle diseguaglianze sociali.  Un contesto — è bene sottolinearlo, spesso dimenticato dalla grande stampa internazionale — dove a pagare il prezzo più alto sono i ceti meno abbienti. 

Pertanto è auspicabile un rinnovato impegno da parte delle autorità nigeriane in difesa dei diritti umani, garantendo sicurezza e partecipazione. Il presidente della federazione nigeriana, Muhammadu Buhari, ha promesso pubblicamente che i responsabili dell’efferato crimine di Owo verranno assicurati alla giustizia e ciò è certamente di buon auspicio. Unitamente però all’impegno di assicurare il pieno rispetto delle leggi in un Paese che è la metafora delle contraddizioni dell’intero continente, dove alle immense ricchezze del sottosuolo ricco di idrocarburi si associa lo scandalo della povertà. Una cosa è certa. Per le vittime della violenza in Nigeria, come in altre periferie del mondo, non bastano il cordoglio e il pianto delle libere coscienze, occorre levare la propria indignazione. Infatti, lungi da ogni retorica, rispetto al mistero del dolore che affligge i bassifondi della Storia africana, c’è da chiedersi se non sia davvero giunto il momento di contrastare quella penosa “globalizzazione dell’indifferenza” stigmatizzata in più circostanze da Papa Francesco.