Chiesa Cattolica – Italiana

Nelle chiese di Casal di Principe, 30 anni dopo, la lettera di don Diana

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

“Abbiamo riletto e portato nelle nostre chiese la lettera ‘Per amore del mio popolo’, trent’anni dopo, perché era stata un po’ messa da parte, e i ragazzi di allora non la conoscevano. E’ stato ed è un atto d’amore per loro e per la povera gente che ha preso la strada della camorra e ha fatto una brutta fine”. Don Carlo Aversano, il 76.enne parroco del Santissimo Salvatore, chiesa madre di Casal di Principe, provincia di Caserta, è uno dei parroci della diocesi di Aversa che hanno esposto accanto all’altare, al presepe o all’ingresso della chiesa una copia del documento “Per amore del mio popolo”, pubblicato il 24 dicembre del 1991 dai sacerdoti della Forania, e che aveva come primo firmatario don Peppe Diana, parroco della chiesa di san Nicola di Bari, ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994.

Don Aversano: “Con Peppino è morta anche una parte di me”

Ma è anche il sacerdote che nella foto che accompagna il documento si trova accanto a don Peppe, che aveva avuto come allievo seminarista quando era vicerettore del seminario diocesano e poi per quattro anni viceparroco sempre al Santissimo Salvatore. Quando don Diana è stato ucciso, a 36 anni, in sacrestia, mentre stava per celebrare la Messa, nel giorno del suo onomastico, “una parte di me, umanamente, è morta con Peppino – ci dice – ma è resuscitato invece l’impegno in mezzo alla gente per testimoniare Cristo in modo rinnovato”.

Don Carlo Aversano con la copia del documento “Per amore del mio popolo”. Foto: Augusto Di Meo

Quel Natale del 1991 segnato dalla guerra di camorra

E nel giorno di Natale don Carlo ha dedicato tutte le omelie per ricordare quel documento, nato nel contesto di una drammatica guerra di camorra, che il 21 luglio del 1991 aveva stroncato la vita di un ragazzo di 20 anni, Angelo Riccardo, colpito con un proiettile ad un occhio mentre passava per caso in auto nella piazza principale di san Cipriano d’Aversa, dove un commando cercava di uccidere un camorrista di un clan rivale. “La camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana –  scrivevano i parroci della Forania di Casal di Principe – assistiamo impotenti al dolore di tante famiglie che vedono i loro figli finire miseramente vittime o mandanti delle organizzazioni della camorra. Come battezzati in Cristo, come pastori (…) ci sentiamo investiti in pieno della nostra responsabilità di essere ‘segno di contraddizione’”.

“Un atto di amore anche per chi ha preso una strada di morte”

Anche per questo documento, poco più di due anni dopo, don Peppe veniva ucciso. Nell’agosto del 2021, il vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, che ha posto il suo stemma sulla copia della lettera “Per amore del mio popolo”, ha istituito una commissione diocesana che si sta occupando di avviare l’iter per la beatificazione di don Diana, guidata dal vicario generale, monsignor Franco Picone, attuale parroco a San Nicola di Bari. Ecco l’intervista integrale a don Carlo Aversano, che al Santissimo Salvatore è parroco dal 1978, quasi 44 anni.

Ascolta l’intervista a don Carlo Aversano

Cosa ricorda di quel Natale di 30 anni fa? Cosa vi spinse a scrivere come parroci quella lettera? La situazione durante quella guerra di camorra era davvero drammatica per la popolazione?

Sì, quelli erano davvero degli “anni di piombo”, era diventata asfissiante la presenza di questa malavita organizzata, la camorra, che seminava morte e dolore dappertutto. Davvero non si respirava. Per cui prendemmo l’occasione del documento della Chiesa di 10 anni prima (quello dei vescovi della Campania del 1982, n.d.r) che avevamo già letto nelle nostre chiese e ne facemmo una sintesi per adattarlo al nostro territorio e stimolare la gente a prendere coscienza che bisognava alzare la testa, finalmente.

Il manifesto “Per amore del mio popolo”. Nella foto, il primo a sinistra è don Diana, al centro don Aversano. Foto. Augusto Di Meo

E ora, trent’anni dopo, perché questa iniziativa? E’ solo un fare memoria o le coscienze della gente vanno comunque richiamate all’impegno?

Trent’anni dopo è stato necessario, anche adesso, riprendere il discorso e fare rileggere alla gente le nostre intenzioni. Perché oggi i ragazzi di allora sono genitori, anche nonni, probabilmente, e non so fino a che punto hanno conosciuto il volantino. Io ho voluto ripresentarlo e farne il tema delle omelie in tutte le Messe del giorno di Natale perché, ho detto in modo accorato che bisognava leggerlo, conoscerne il contenuto che molte volte è stato snobbato e anche messo da parte. Ho invitato proprio i giovani a leggere questo documento perché era un atto d’amore verso il popolo e anche verso quella povera gente che aveva preso quella strada e che poi ha fatto quella fine. Oggi, o sono sotto terra, o sono in galera e quindi con una vita ancora peggiore. I familiari mi sembrano larve che girano ancora nel paese, qualche volta, o sono pentiti che collaborano con la giustizia. Veramente è una situazione che ancora adesso va ripresa con uno stimolo a rileggere quegli anni e a vedere se la sofferenza di chi ci ha rimesso può essere frutto di redenzione.

Qual è stata la risposta dei fedeli della sua parrocchia e di quelli di tutta la forania?

Non mi aspettavo una risposta così positiva. Subito dopo la Messa sono venuti dei giovani a parlarmi di questo, ed erano compiaciuti che finalmente si rettificava qualche errore o qualche abbaglio preso. Anche ieri sera, per esempio, è venuto un signore a dirmi. “Don Carlo, appena passa questo problema del Covid ne faremo oggetto di discussione tra noi, e cercheremo di portare ancora qualche messaggio e raccogliere qualche frutto”. Frutti già che ne sono stati, perché nel nostro paese adesso non si teme più di parlare di camorra, magari anche in pubblico e cerchiamo di realizzare anche iniziative concrete. E vedo che poi i ragazzi, per quanto vivano con quella idea del sangue, della famiglia, che circola nella zona nostra, però hanno preso le distanze da queste realtà di malavita. Era una specie di eredità, atteggiarsi per mettersi in luce, non per virtù, ma per sentirsi migliori degli altri, solo perché figli di questo o quell’altro. Da giovane parroco ho fatto tanti  campi scuola in montagna con i ragazzi e c’erano tanti figli di camorristi. Desideravo portarli lontano da quella vita, e c’è stata anche una fitta corrispondenza con molti genitori di questi che erano in galera e chiedevo a loro di suggerire ai figli di fare una vita diversa e molti ci hanno provato, ma purtroppo il modello era quello. Ho avuto anche il piacere di sentirmi dire da qualche ragazzo che chiedeva di partecipare alla vita parrocchiale, quando gli dissi : “Parleremo con papà e lui sarà contento di vederti in chiesa” mi rispose invece: “No, mio padre non ha voce in capitolo con me perché ha preso un’altra strada”. Ragazzi che già allora, a sentir parlare di Chiesa e di valori, prendevano le distanze dai loro genitori. Si inizia a mettere il seme. Un altro ragazzo, invece, che era giovanissimo, venuto ad un campo scuola, aveva il terrore di morire presto. Mi diceva spesso: “Don Carlo, perché devo morire presto?”. Io gli leggevo nell’animo, quello che soffriva, sapendo di far parte di una famiglia avviata per una strada che non prometteva nulla di buono. E sul pullman al ritorno diceva ai compagni: “Io non verrò più ai campeggi”. Giorni dopo morì in un incidente stradale in maniera tragica.

Il manifesto “per amore del mio popolo” sopra l’altare in una chiesa della Forania di Casal di Principe

Voi lo scrivevate anche, 30 anni fa: “Dobbiamo educare con la parola e la testimonianza di vita alla prima beatitudine del Vangelo che è la povertà” e la solidarietà. Quindi a non cercare nella vita la ricchezza facile…

Sì anche perché il ragazzo è attirato dal guadagno facile, e l’educazione era il nostro primo obiettivo. E poi era Natale e guardare il Natale con Cristo che nasce in una grotta ci ha indicato la via, era quello il modello. Volevamo dire che i soldi non salvano, quando invece i camorristi la prima cosa che propongono è il benessere, una vita che sciupa anche le esistenze. Ed era molto distruttivo il fatto di attirare i ragazzi al guadagno facile.

Da quello che mi ha detto, ci sono stati dei cambiamenti in questi trent’anni, soprattutto dopo il sacrificio di don Peppe Diana. Si è detto che le vostre terre sono ora le terre di don Diana… ma sono ancora anche le terre di camorra?

L’espressione “terra di don Diana”, non so fino a che punto è reale. Però il mio sogno è che cambino i cuori della gente, che guardino a don Diana come un modello da seguire, ma non tanto per il suo schieramento contro la camorra, ma per il messaggio che portava. Perché lui era soprattutto un sacerdote e lo faceva con passione: era un trascinatore in mezzo ai ragazzi. Mi ha fatto da vice parroco per quattro anni e qui in parrocchia era travolgente nelle sue iniziative. Credo che la “terra di don Diana” siamo tutti noi, che dobbiamo coltivare il suo messaggio.

Guardando ancora al documento, come pensate di proseguire il cammino, come Chiesa? Serve ancora “un’azione più tagliente e meno neutrale – come scrivevate – per la promozione umana e la testimonianza”?

Abbiamo ripreso il documento e pubblicato con lo stemma del nostro vescovo, che è stato il primo a suggerire di riproporlo alla gente. Credo che oggi ci troviamo nella situazione nella quale la Chiesa si presenta come Chiesa sinodale, e sinceramente Papa Francesco affascina quando ci dice di amare una Chiesa in uscita, che esce facendosi male e si lacera, piuttosto che una Chiesa nascosta. Quindi penso che l’abbiamo preceduto in questo suo pensiero: siamo andati fuori e ci abbiamo rimesso. L’uscir fuori fino ad arrivare ad essere uccisi, perché in qualche modo ci abbiamo rimesso un po’ tutti insieme a don Peppe. Con Peppino una parte di me, umanamente è morta, ma è resuscitato invece l’impegno in mezzo alla gente che testimonia il Cristo in modo particolare.

Don Peppe Diana, il parroco di San Nicola di Bari, a Casal di Principe, ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994

Lei che lo ha avuto come allievo in seminario e poi come vice parroco crede che si riuscirà a chiudere entro il 2024 l’iter per la beatificazione a livello diocesano avviato quest’estate dal vescovo di Aversa?

Penso che il vescovo abbia fatto molto bene a prendere in mano la situazione e a istituire una commissione perché si guardi a don Peppino come ad un testimone nel nostro territorio. Però io l’ho sempre visto accanto a me, sull’altare e sempre come modello da imitare. Ci sarà o meno l’aureola, sinceramente non è che mi interessi tanto. La santità viene al di là di questo: lui ha già fatto il suo percorso, e per noi scoprirlo personalmente sarà meraviglioso. Io ho sempre pensato che mettere don Peppe sugli altari è un po’ come allontanarlo da noi, ma io lo tengo vicino, gli voglio bene da vicino, ecco.

Exit mobile version
Vai alla barra degli strumenti