Nel braccio della morte per difendere la vita

Vatican News

Davide Dionisi – Città del Vaticano

Con i suoi 320 detenuti, lo stato della Florida ha il più grande braccio della morte attivo negli Stati Uniti. Di questi, una sessantina sono cattolici e altri 17 si stanno convertendo. Dale Recinella li conosce bene e, insieme a sua moglie Susan, li assiste, accompagnandoli ogni giorno parlandogli di Gesù. Ex prestigioso avvocato della finanza di Wall Street, laureato alla Notre Dame Law School, proprietario di un attico affacciato sulla baia di Miami, lascia tutto trenta anni fa e decide di diventare assistente spirituale dei condannati a morte. Prima di salire sul volo che lo porterà a Roma dove, nei prossimi giorni, parteciperà all’Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita e visiterà i detenuti collaboratori di giustizia nella Casa di reclusione di Paliano, in provincia di Frosinone, racconta a Vatican News la sua missione e l’impegno della Chiesa in questo difficile percorso ad ostacoli e quali sono le prospettive future in vista di una prossima, quanto auspicabile, abolizione della pena capitale nel suo paese. Alla luce anche di quanto avvenuto in Virginia, diventato lo scorso marzo il primo Stato del sud a scaricare il boia.

Il ruolo della Chiesa statunitense

Recinella affronta subito il tema delle “persistenti resistenze” negli Usa per l’abolizione della pena capitale. “Ritengo che ancora sia in vigore anche per alcune nostre responsabilità. Molti cristiani sono convinti che sia uno strumento che il Signore ha dato all’uomo per vendicarsi. E’ evidente che questo esula dagli insegnamenti cardine del Vangelo”. Ma Dale è convinto che la Chiesa statunitense riesce pienamente ad incidere nel dibattito sull’abolizione. Anzi, definisce il suo ruolo “fondamentale”. “Negli anni 80 e 90 i fautori alle esecuzioni rappresentavano l’80 percento della popolazione. La visita di Giovanni Paolo II fu determinante sotto questo punto di vista perché lanciò un messaggio forte. Tale spinta rese possibile una riflessione e un’indagine più approfondita tanto che ci si rese conto che nei bracci della morte c’erano molti innocenti. Oggi possiamo dire che l’opinione pubblica è divisa a metà anche perché Benedetto XVI prima, e Francesco poi, hanno continuato sul solco di Woytila attraverso prese di posizione molto forti. E’ un cammino lungo e faticoso, ma continuiamo nella nostra missione”.

Difendere la vita attraverso la testimonianza

Recinella chiede, poi, di “prestare molta attenzione ad evitare di agire senza sapere quale direzione prendere”. Il riferimento è ai media americani che, a suo avviso, continuano a dire che la Chiesa americana non è proprio contraria alla pena di morte. “Questa la considero un’aberrazione. Il nostro compito è quello di difendere la vita a tutti costi attraverso la nostra testimonianza diretta”.

Più spazio per Dio, meno criminalità

La presenza del cappellano e della comunità cristiana esterna faticano sempre più nelle carceri a trovare tempi e spazi per garantire ai detenuti il diritto alla pratica della propria fede e allo svolgimento di attività complementari. Secondo Fratello Dale si tratta dell’effetto di un sistema di valori distorto della nostra società. “Negli Stati Uniti la situazione si è aggravata rispetto a 20 o a 30 anni fa perché le famiglie preferiscono dare la priorità a tante altre attività. Nel quartiere cattolico italiano di Detroit dove sono cresciuto, negli anni Cinquanta, si era soliti andare in chiesa diverse volte a settimana” racconta, osservando che “Oggi il nostro tempo da dedicare al Signore si è ridotto. E questo è avvenuto anche in carcere. La formula è semplice: se ci fosse più spazio per Dio nel nostro quotidiano, ci sarebbe meno criminalità. In questo scenario non possiamo aspettarci che i detenuti possano diventare più santi di noi”.

La gestione della rabbia

Parlando delle difficoltà di un volontario che presta servizio dietro le sbarre, precisa che: “I detenuti ci osservano attentamente. Più di quanto noi possiamo sospettare”. E ricorda i suoi primi servizi: “Nei primi anni 90, quando mi recavo in prigione, soprattutto nei mesi più caldi dell’anno, c’erano alcuni agenti di polizia penitenziaria che non gradivano la mia presenza in carcere e spesso mi lasciavano sotto il sole per ore ad attendere. Ma sapevo che avrei dovuto gestire il mio malessere e la mia rabbia pensando soprattutto a coloro che mi stavano aspettando. Perché ero certo che incontrando loro, avrei visto Gesù”.

Il doppio malessere del cappellano

Per Recinella, il cappellano in carcere vive un doppio malessere anche perché vuole fortemente migliorare le cose, ma non può farlo. Soprattutto quando la sofferenza dei ristretti raggiunge limiti insopportabili. E questa sensazione di impotenza si acuisce quando si ha a che fare con i condannati a morte. “Ho promesso a molti uomini e a molte donne che sarò con loro nel momento verranno giustiziati. Li guardo dietro le sbarre (e non sono più una minaccia per nessuno) e mi rendo conto che verranno uccisi dallo stato. Non posso non avvertire un senso di sgomento perché mi sento parte di quel sistema. E’ l’emozione più cupa contro cui devo lottare soprattutto quando torno in carcere dopo l’esecuzione. Ma un vero accompagnatore, non può posizionarsi ad una distanza di sicurezza. Mi sono detto che per accompagnare Gesù quando muore sulla croce, devo essere ai suoi piedi anche se il sangue delle sue ferite mi cade addosso. Anche perché la domanda più frequente che tutti i condannati mi rivolgono è sempre la stessa: Sarai lì quando morirò?