Myanmar, “Uccidete me, non la gente”: l’invocazione di Suor Ann Rose diventa un libro

Vatican News

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Più di 200 organizzazioni hanno chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di imporre “con urgenza” un embargo sulle armi contro il Myanmar, come rappresaglia contro la giunta militare che governa il Paese dal colpo di stato dello scorso 1° febbraio. La misura servirebbe a “porre fine al massacro di chi protesta” contro gli attuali leader. La campagna ‘Non un altro proiettile’ (#NotOneBulletMore), sostenuta da organizzazioni come Amnesty international e Human rights watch (Hrw), ritiene che una semplice condanna degli abusi commessi non sia sufficiente.

Alle radici della crisi birmana

Mentre la crisi nel Paese asiatico sembra non trovare tregua, oggi esce il libro intervista “Uccidete me, non la gente” (EMI) del giornalista Gerolamo Fazzini, già direttore di Mondo e Missione. E’ il ritratto di Suor Ann Rose Nu Tawng, diventata una icona di coraggio disarmante. L’immagine di Suor Ann Rose in ginocchio davanti ai militari birmani ha fatto il giro del mondo, scosso gli animi, imponendo alle agende dell’informazione generalista di illuminare gli sconvolgimenti di un Paese ritenuto probabilmente ancora troppo ‘lontano’. Un gesto, quello della religiosa, che risale al 28 febbraio e ripetuto l’8 marzo scorso; la prima volta le è costato due sassi al petto. Attraverso di lei emerge uno spaccato sociale, economico e politico del Myanmar che aiuta in qualche modo ad accorciare le distanze con quell’area del mondo. Il libro è corredato di una preziosa scheda storica e della spiegazione della crisi che si sta consumando da tre mesi a questa parte.

Zuppi: suor Ann Rose è un’artigiana della pace

Nella prefazione, firmata dal cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, si insiste sull’amore che ha portato a un gesto come quello della suora, “non è solo questione di coraggio”. Una autentica artigiana della pace – così la definisce il porporato – una donna che ha affrontato la pandemia della violenza, consapevole che l’ingiustizia provoca sempre violenza e altra sofferenza. “Io mi sento di vivere come in un incubo ma ho la speranza che un giorno avremo la pace e che la giustizia trionferà”, così ripete suor Ann Rose nell’intervista. Lei è infermiera, davanti alla clinica di Myitkyna gestita dalla sua congregazione di San Francesco Saverio, e rimasta aperta per accogliere i feriti delle manifestazioni in corso, sfilavano pacificamente un migliaio di persone. Là davanti ha implorato i soldati di non uccidere.

La messa celebrata dal Papa per i birmani a Roma

Fu proprio quel gesto ad ispirare Francesco il 21 marzo scorso quando, alla fine dell’udienza generale, disse: “Anche io mi inginocchio sulle strade del Myanmar”. Non sono nel frattempo mancati pensieri e preghiere di solidarietà per il popolo birmano da parte del Papa che, il 16 maggio, nella Basilica vaticana, presiederà una messa per i fedeli del Myanmar a Roma. Come accoglie la notizia Gerolamo Fazzini?

Ascolta l’intervista a Gerolamo Fazzini

R. – Sono molto contento di questa decisione. Ringrazio Papa Francesco per questa iniziativa coraggiosa, questo gesto di solidarietà che sicuramente verrà molto apprezzato. Io ho già avuto modo di riscontrare, nella comunità delle religiose birmane che sono proprio qui nella mia città di Lecco, grande soddisfazione. E’ un segno che la chiesa locale vive come vicinanza di questo Papa che, non dimentichiamo, è stato il primo ad andare in Myanmar.

Che parole useresti per descrivere la personalità di Suor Ann Rose?

R. – Semplice e allo stesso tempo grande. La descrizione che fa della sua storia, della sua famiglia di provenienza, della sua vocazione è quella di una persona che viene appunto da un contesto piuttosto semplice: il papà si dedica a tempo pieno al catechismo. Quello che la rende straordinaria e particolare è non solo il coraggio che ha avuto davanti ai militari, ma la fede che l’ha mossa perché lei dice chiaramente: ho sentito che dovevo farlo, Dio mi ha dato il suggerimento di farlo e lo Spirito Santo è stato con me in quel momento. Mi ha colpito molto questo.

Ann Rose non dimentica di pregare per i militari…

R. – Sì, è importante questo aspetto. Ha usato parole abbastanza dure, severe verso i militari ma prega per loro, per la loro conversione e dice anche chiaramente che alcuni di loro vorrebbero essere dalla parte del popolo ma che i loro capi non glielo permettono. Da questo punto di vista l’ho trovata molto lucida e anche molto cristiana nel concedere la possibilità del perdono, in uno stile molto evangelico.

Come guarda lei alle nuove generazioni, in particolare alla cosiddetta generazione Z che sta partecipando attivamente alle proteste contro la giunta militare?

R. – Con una grandissima speranza e anche, direi, con un senso di riconoscenza. Esplicitamente suor Ann Rose riconosce che sono proprio i giovani i protagonisti principali di questa protesta popolare, trasversale intergenerazionale, che riguarda un po’ tutte le comunità etniche – ben 136 – e credenti di varie tradizioni religiose. Perché è un Paese giovane il Myanmar, l’età media è piuttosto bassa, ma perché i giovani sono quelli che più sentono il desiderio di vivere in un paese democratico. Solo quelli che sanno che i genitori hanno dovuto passare tanti anni in un’epoca buia e non vogliono assolutamente che il loro futuro assomigli a quello dei loro padri e delle loro madri. Hanno assaggiato negli ultimi anni la democrazia e vogliono continuare a farlo in maniera sempre più compiuta e completa in futuro.

Nel tuo libro Suor Rose viene considerata l’icona di quella ‘chiesa con il grembiule’ – citando Don Tonino Bello – che scende in strada e si espone a proprio rischio e pericolo per la causa della libertà…

R. – Sì, e non solo lei. Il fatto che per le vie della capitale e di altre città siano scesi in piazza preti, seminaristi, tanti laici… tutto questo è segno di una Chiesa cattolica che questa volta più che mai si è collocata dalla parte della gente, ha voluto essere Chiesa in uscita. In un Paese in cui – come in molte zone dell’Asia – c’è il pregiudizio, lo stereotipo che vede la religione cattolica equiparata inevitabilmente a qualcosa di straniero – la Chiesa cattolica ha voluto giocare fino in fondo la sua parte in questa occasione per dire: noi siamo solidali con il popolo, siamo dalla stessa parte e rischiamo, come lei stesso ha fatto. Non dimentichiamo che, per esempio, i primi giorni delle proteste l’arcivescovo di Mandalay, la seconda città del Paese, è stato fotografato con il segno delle tre dita alzate, il gesto simbolico ripreso per dire ‘siamo dalla parte del movimento della disobbedienza civile contro la prepotenza dei militari’. Sappiamo che il cardinale Bo ha detto, usando parole molto chiare, dove sta la Chiesa.

Le tensioni degli ultimi tre mesi ci stanno facendo conoscere un po’ la punta dell’iceberg di questo Paese, ma molto ancora non emerge alle cronache internazionali: – come lei stessa racconta – per esempio, nelle campagne ancora vige il controllo diretto della rete internet… Qual è l’appello di Suor Anne Rose al mondo occidentale in merito alle sorti dell’ex Birmania?

R. – La richiesta è molto semplice e perentoria: non dimenticateci. E’ un grido espresso a più livelli. Da un punto di vista intra ecclesiale è l’appello di una cristiana ad altri cristiani a vivere questa solidarietà nella fede. Ma poi c’è anche un livello ovviamente più politico. Il popolo birmano sa benissimo che sarà una lotta impari quella di abbattere i militari con le sole proprie forze. Questi potranno essere messi all’angolo se ci sarà un movimento ‘a tenaglia’, ovvero se ci sarà un intervento sul fronte economico, sanzioni e quant’altro e politico, che delegittimi la giunta e invece riabiliti Aung San Suu Kyi, forse un po’ troppo frettolosamente scaricata dalla comunità internazionale per la nota questione dei rohingya. Ecco, Anne chiede che non si dimentichi la battaglia di questo popolo, che non si dimentichino le sofferenze della gente e che non si dimentichi il fatto che è in corso una partita geopolitica ed economica importante in quella fetta di mondo e nella quale sono coinvolte anche aziende europee, portatrici di interessi occidentali. Insomma, è un appello a farsi un esame di coscienza: se volete aiutarci davvero, cambiate linea.

Prima ricordavi che tra i militari c’è chi vorrebbe manifestare un atteggiamento diverso…

R. – Sicuramente c’è una spaccatura anche all’interno del mondo dei militari, non foss’altro perché legata a un fatto generazionale. La vecchia guardia è stata al potere dal 1962 al 2015, adesso ci sono anche altre figure e la speranza è che ci sia un cambiamento anche all’interno di quel mondo. Il problema dell’esercito in Myanmar è che non è soltanto un centro di potere bellico. Conta molto l’aspetto economico: l’esercito gestisce due holding grossissime che hanno sotto di sé delle aziende statali, hanno degli ospedali per conto proprio, terreni, delle proprietà. L’esercito è veramente uno Stato nello Stato. Questo è il punto: ci sono degli interessi così incrostati, così sedimentati che è difficilissimo smantellarli, c’è una una sovrapposizione di elementi politici ed economici molto forti. Perciò o entra in gioco la comunità internazionale a vari livelli, oppure è come se i birmani dovessero scalare una parete di sesto grado da soli.