MSF: il mondo apra gli occhi sulla crisi in Burkina Faso

Vatican News

Marco Guerra e Giancarlo La Vella – Città del Vaticano

Resta alto l’allarme in Burkina Faso, dopo l’ennesima strage perpetrata dai gruppi jihadisti e costata la vita ad almeno 22 persone, molti i cristiani, ma tra le vittime anche fedeli di religioni tradizionali africane.

Polemiche per il ritorno di Compaore

La giunta militare al potere ha convocato un incontro per domani, venerdì 8 luglio, tra il presidente ad interim Paul-Henri Damiba e diversi ex presidenti per discutere “questioni legate agli interessi superiori della nazione”, si legge in comunicato diffuso dalla presidenza. Questa iniziativa politica sta facendo molto discutere, perché l’ex presidente del Burkina Faso, Blaise Compaore, tornerà dall’esilio per la prima volta da quando è stato spodestato con una rivolta del 2014. Compaore sarà di nuovo in patria nonostante la sua condanna, emessa ad aprile scorso da un tribunale militare, per complicità nell’omicidio del suo predecessore, Thomas Sankara, avvenuto nel 1987, durante il colpo di Stato che lo portò al potere. In una dichiarazione, un’associazione di avvocati che rappresenta le famiglie di Sankara e di altre persone uccise durante il golpe, ha chiesto che Compaore venga arrestato una volta giunto in Burkina Faso. Questo sembra improbabile, visto che Amadou Coulibaly, portavoce del governo della Costa d’Avorio, che ha ripetutamente rifiutato l’estradizione di Compaore, ha dichiarato che il governo ivoriano ha concordato il ritorno di Compaore con le autorità burkinabé.

I militari e la questione sicurezza

La giunta militare ha preso il potere in Burkina Faso con un putsch nel gennaio scorso, giustificato proprio dall’aumento della violenza di gruppi armati e dalla necessità di combatterla, ma finora non si è riusciti a frenare l’insurrezione dei movimenti per lo più legati ad al-Qaeda e allo Stato Islamico. Nelle ultime settimane il presidente ad interim, Damiba, si è rivolto ai predecessori, sottolineando la necessità dell’unità politica di fronte alla minaccia terroristica.

La dinamica della strage

Il malcontento e la richiesta di sicurezza da parte della popolazione sono ancora più pressanti a seguito della strage avvenuta nella notte tra il 3 e il 4 luglio, quando terroristi arrivati in motocicletta hanno assaltato il villaggio di Bourasso, località situata nei pressi di Dédougou, capoluogo della provincia di Kossi. “Hanno ucciso 14 persone davanti alla chiesa”, riferisce un sacerdote del posto. Dopo questo primo massacro gli aggressori si sarebbero diretti all’interno del villaggio per uccidere un’altra ventina di persone. 

L’opera umanitaria di Medici Senza Frontiere 

In Burkina Faso lavora da tempo in varie zone del Paese il personale sanitario di Medici Senza Frontiere. Avra Fialas, responsabile della comunicazione di MSF a Ouagadougou, racconta ai microfoni di Radio Vaticana – Vatican News l’escalation di violenza che sta avvenendo in una delle zone più povere del continente africano.

Qual è la situazione oggi in Burkina Faso?

E’ in corso un conflitto condotto dai diversi gruppi armati, diversi gruppi terroristi che sono in tutto il Sahel e che colpiscono senza distinzioni etniche o religiose e purtroppo per la maggior parte gli obiettivi sono sempre più spesso i civili, che diventano obiettivi in una sorta di strategia del terrore e della paura, che ha lo scopo di sfollare zone sulle quali questi gruppi vogliono avere il controllo. Molte volte creano delle vere e proprie enclave, città nelle quali spesso opera Medici Senza Frontiere. Lo stesso avviene anche tra Mali e Niger.

Il Burkina Faso è tra i Paesi più poveri al mondo. E’ anche questa una delle cause della violenza che sta esplodendo in questi ultimi tempi?

Le ragioni del conflitto sono diverse. In breve possiamo dire che c’è stata un’estensione delle turbolenze che sono cominciate nel Paese vicino, il Mali, nel 2012 e poi hanno coinvolto anche altre zone del Sahel come il Burkina Faso. Precisamente nel 2015 sono cominciati i primi attacchi terroristici in Burkina Faso e da lì a oggi diversi gruppi armati hanno portato avanti le loro azioni armate che sono la causa di quasi 2 milioni di persone sfollate all’interno del Paese proprio a causa delle violenze in corso. Il massiccio spostamento di persone ha aumentato enormemente le esigenze umanitarie, sia delle comunità ospitanti, che di quelle sfollate. Le persone hanno bisogno di tutto, essendo prive delle cose fondamentali, come per esempio l’assistenza sanitaria.

C’è particolare attenzione della comunità internazionale su quanto sta avvenendo in Burkina Faso e anche in altre zone limitrofe dell’Africa?

Si può dire che purtroppo la crisi umanitaria che sta avvenendo in Burkina Faso è la seconda più trascurata al mondo, per mancanza di fondi, di interesse da parte dei media o di iniziative politiche e diplomatiche internazionali. Dall’anno scorso è stato rilevata una recrudescenza della violenza in Burkina Faso. Sei mesi dopo, e oggi nel 2022, la situazione si sta ancora più deteriorando. Il Paese è diventato il principale hotspot della regione centrale del Sahel in termini di conflitto, violenza e crisi umanitaria. C’è un numero crescente di rapimenti, di scontri tra i gruppi armati e si segnalano continui attacchi anche gravi a civili, strutture sanitarie, personale sanitario, fonti d’acqua e sempre più spesso alle infrastrutture di comunicazione, come le strade, i ponti, gli impianti telefonici, i punti d’accesso all’acqua. Questo ha provocato il progressivo isolamento di molte aree di questo Paese. Parliamo soprattutto della regione del Sahel che sta al confine con il Mali e il Niger.

Quali sono le conseguenze umanitarie, quindi sulla popolazione civile, di questo stato di violenza continua?

A queste città che, come dicevo, diventano enclave dei gruppi armati, vengono tolte comunicazioni, elettricità, accesso all’acqua, molte volte accesso al cibo e diventa veramente difficile per le popolazioni sopravvivere, mancando anche il minimo necessario per il sostentamento. Sono purtroppo delle vere prigioni a cielo aperto.

In questa situazione quali sono le difficoltà in cui operano Medici Senza Frontiere e anche le altre ong?

Purtroppo, c’è un aumento dell’insicurezza per gli operatori umanitari, per i medici. Molte strutture sanitarie del Paese e il personale sono state attaccate tra il 2021 e il 2022. E questo costante aumento del rischio e degli attacchi armati, questo cambiamento di chi ha il controllo territoriale sono aspetti che rendono ancora più difficile sapere quali sono i percorsi da prendere. Stiamo assistendo anche ad una diminuzione delle capacità operative di altri medici, con cui potremmo lavorare, o di altri partner come il ministero della Sanità o altre organizzazioni non governative. Oggi Medici Senza Frontiere opera in 4 delle 13 regioni del Burkina, fornendo assistenza sanitaria primaria e secondaria, compresa la maternità, l’assistenza pediatrica e anche per i problemi più comuni come, ad esempio, la malaria. Oltre all’assistenza medica, garantiamo la distribuzione di acqua potabile, che è uno degli aspetti fondamentali e più problematici. Quindi aiutiamo le comunità a costruire pozzi e trivelle per trovare fonti d’acqua pulita. Il Burkina Faso è anche uno dei nostri interventi umanitari più importante come numero di pazienti. Nel 2021 Medici Senza Frontiere ha effettuato circa 500 mila visite mediche e distribuito più di 100 milioni di litri d’acqua. Il problema è che con la crescita dell’insicurezza la risposta umanitaria deve essere urgentemente aumentata, non solo da parte nostra, perché non possiamo accedere in tutti i luoghi in cui c’è bisogno di intervenire, ma anche dalle altre organizzazioni. Ed è importante avere l’attenzione della comunità internazionale per questa crisi purtroppo dimenticata che causa ogni giorno diversi morti e che ha causato quasi 2 milioni di sfollati su una popolazione di 20 milioni, il numero più elevato se lo paragoniamo ai Paesi africani vicini del Sahel. Quindi c’è veramente il bisogno di accendere i riflettori del mondo su questa crisi.