Chiesa Cattolica – Italiana

Missionarie della Carità: il carisma di Madre Teresa per gli afghani

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Ascoltare i bisogni del momento, pregare intensamente lo Spirito Santo, poi decidere aderendo alla volontà di Dio. È il lascito spirituale di Madre Teresa di Calcutta, canonizzata il 4 settembre 2016, una vita offerta per il servizio ai più poveri tra i poveri. Case religiose aperte in tutti i continenti. Uno stile contemplativo sulle strade del mondo. Una donna che, come ci diceva cinque anni fa la Superiora Generale sr. Prema, non ha mai fatto un passo indietro nel difendere la dignità delle persone. Il quinto anniversario del riconoscimento della santità della suora albanese si intreccia con la vicenda delle Missionarie della Carità che hanno dovuto lasciare – dopo quindici anni – l’Afghanistan. A volte lo Spirito suggerisce di restare, altre volte di muoversi. Per loro è toccato muoversi, muoversi da Kabul. Non senza, però, i 14 bambini disabili che sono riuscite a portare con loro in Italia e insieme ai quali sono accolte in una delle case della Comunità, alla periferia di Roma. 

Servendo i profughi da Kabul

“È Gesù che soffre e che vuole essere amato, che chiede amore e che dona amore”: con la discrezione che segna da sempre il loro agire, le suore ci raccontano questo loro fare spazio a una esperienza – quella dell’accoglienza dei ragazzi afghani – per loro vissuta come una “vera rivoluzione” che sta imponendo un riassetto logistico, una ridefinizione dei compiti, un surplus di energie. Ma le forze arrivano dal Signore. E dai bambini stessi. “Questi bambini stanno donando anche a noi: tenerezza, relazioni, in maniera diversa da come noi le pensiamo. Ci chiedono di relazionarci con loro e ci danno la capacità di amare; ci stanno allargando il cuore per poter amare di più. E amano anche loro”. Con una forza disarmante che si fa interpellare di continuo dalla realtà concreta che chiama, spariglia e trasfigura, la suora che ci parla [rispettiamo il suo desiderio di anonimato] ci riporta a guardare la piccolezza, come faceva la Madre.

“Sono esseri capaci di amare tanto e ci sorprendono anche con un semplice sorriso, anche se non ci conoscono bene perché conoscono le poche suore arrivate con loro”, racconta.  Sono i gesti di quotidiana cura a regalare insospettate ventate di letizia e conforto reciproco: magari dopo aver cambiato un bambino, lui accenna a un sorriso. Oppure vengono chiamate da una ragazza cieca: ‘Sister, sister!’. Questa ricerca di contatto, di comunicazione possibile, nonostante tutto, fa capire che gli ospiti si accorgono della loro presenza. Ed è un imparare vicendevole, senza pretese, senza etichette. Stiamo imparando anche dalle nostre consorelle che sono arrivate nemmeno una settimana fa. Loro capiscono molto meglio di noi questi ragazzi perché hanno vissuto tanto tempo con loro. Capiscono quando sono arrabbiati, quando hanno fame, quando sono contenti, quando stanno male”. 

Ai piedi di tanti calvari, solo amando

Le Missionarie arrivate da Kabul, pur nella prova che hanno dovuto sopportare, continuano a servire, non si sono fermate. Aver potuto portare questi bambini dà loro molta gioia. “Questo è il nostro carisma: vivere la sete di Gesù in qualsiasi posto, con chiunque ci troviamo”. Fiducia in Dio e nella Madonna: è stata la roccia a cui si sono aggrappate soprattutto negli ultimi giorni di permanenza in Afghanistan. “Tanta fiducia in Dio. È l’unico sostegno, l’unica potenza. Un grande abbandono nelle Sue mani pregando tanto per abbandonarci a Lui. La presenza della Madonna è stata molto forte. Vivere nel mezzo della sofferenza, vivere la croce, insieme, accompagnando, soffrire anche noi con loro: questo fa parte del nostro carisma. Ai piedi di tanti calvari”. Con quale beneficio? “Il frutto della sofferenza è l’amore. La sofferenza comporta sempre due conseguenze: o ti rende duro, oppure ti scioglie. Dipende da come la si abbraccia e con chi. Gesù ha sofferto tanto per insegnarci cosa fare con la sofferenza. Stare con qualcuno che soffre è condividere, entrare, e il frutto è l’amore. È l’amore, basta. Perché quando qualcuno soffre, e non puoi fare niente, puoi solo amare, stare con e amare la persona là dove è, come è, in quel momento”. 

Ogni missione implica un discernimento 

Ricordiamo insieme l’uccisione di quattro consorelle in Yemen, nel marzo 2016. “Martiri dell’indifferenza”, così commentò l’eccidio il Papa. Cosa significa, adesso, essere venute via dall’Afghanistan? Ci viene spiegato che ogni missione implica un discernimento a sé. Interviene lo Spirito. “Non possiamo fare una regola per tutte le situazioni. Anche se è forte il desiderio di restare con la gente bisogna anche ascoltare lo Spirito Santo. Ciò che vuole da noi in quel momento. In Yemen è stata chiesta la vita – ci dice la suora – qui è stato chiesto di muoversi. Lo Spirito ci può dire cose diverse a seconda delle situazioni, non possiamo prendere una decisione per tutto. La nostra chiamata è stare con i poveri, poi è lo Spirito che ci dice come”. Si insiste sul valore del discernimento, molto importante nella vita di ogni persona, in ogni istante”. E ricordiamo ancora la Madre fondatrice, che “non aveva tanti progetti, i progetti li ha fatti Dio con lei”. “Lei rispondeva al bisogno del momento e lo diceva spesso: ‘questo è il lavoro di Dio, io ho solo ubbidito'”. Teresa, una donna di preghiera che ascoltava Dio nel suo cuore e “anche quando non lo sentiva, in realtà era così unita a Lui, nella propria oscurità, che capiva ciò che Lui voleva in quel momento”. 

Capiamo il Papa, quando parla dei poveri

Ci sovviene allora la parola “pazienza” che contiene in sé “passione” e “attesa”. Proprio sulla capacità di aspettare ci si sofferma: “Alle volte non troviamo le risposte, non abbiamo i mezzi per poter aiutare, ma tante volte dobbiamo anche aspettare. Perché Dio ha tempi diversi dai nostri e vede in maniera diversa da noi. Bisogna allora aspettare e avere fiducia. Noi siamo limitati e dobbiamo aspettare che sia Lui a intervenire. Però, nello stesso tempo, non ci dobbiamo tirare indietro quando poi ci chiede di fare qualcosa”. È una scuola di vita, quella scolpita da Madre Teresa, che va oltre le appartenenze, gli stati di vita. Conveniamo che non è per niente facile aspettare. “Richiede anche tanta sofferenza – ci risponde la suora – perché si deve rimanere dove si è”. La riporto a ciò che ripete sempre Papa Francesco sulla necessità di essere vicino ai poveri, uno dei tratti distintivi del suo Magistero: “Noi siamo per i poveri, quindi lo capiamo. Lo ascoltiamo perché aiuta anche noi a uscire da noi stessi, è un invito costante a prenderci cura di chi non ha niente e nessuno”. E intanto non c’è più tempo per parlare, bisogna continuare a servire. “Non abbiamo programmi, stiamo vedendo come fare meglio per rispondere ai loro bisogni. Viviamo una giornata per volta. Non abbiamo nemmeno il tempo di aspettarci nulla”. 

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