Mincione: col petrolio in Angola la Santa Sede perdeva tutto, Londra miglior investimento

Vatican News

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Ancora Londra, ancora le trattative per il Palazzo di Sloane Avenue, ancora i rapporti con il broker Gianluigi Torzi, Credit Suisse e la Segreteria di Stato, sono stati il centro della seconda e ultima parte dell’interrogatorio al finanziere Raffaele Mincione, imputato nel processo per i presunti illeciti con i fondi della Santa Sede. Già ieri il businessman italiano residente a Londra si era sottoposto alle domande del Promotore di Giustizia per oltre sette ore. Altre quattro è durato oggi il proseguo dell’esame, nella ventunesima udienza nell’Aula dei Musei vaticani, con le domande dell’accusa, della difesa e delle parti civili, la maggior parte delle quali incentrate sulla vicenda della compravendita dell’immobile londinese, ipotesi sorta dopo il fallimento di un affare per un pozzo di petrolio in Angola, per il quale Mincione fu coinvolto come advisor.

Nessun rapporto con Becciu 

Prima, però, di entrare nel vivo dell’interrogatorio, l’imputato – a domanda del promotore aggiunto Alessandro Diddi – ha smentito qualsiasi conoscenza diretta con il cardinale Angelo Becciu. “Non ho il suo numero, non ho la sua mail, nessun tipo di frequentazione. In tre appuntamenti l’avrò visto in totale 20-30 minuti”. “Becciu – ha aggiunto ancora il broker – non ha mai forzato la due diligence (sull’affare Angola che il porporato aveva proposto). Per noi è sempre stata una persona lontana da quanto stava accadendo”.

Un investimento “più conservative”

Gli unici referenti per la Segreteria di Stato – con la quale, ha detto, venivano intrattenuti “rapporti diplomatici” – erano Fabrizio Tirabassi, ex funzionario dell’Ufficio amministrativo, ed Enrico Crasso, ex dirigente di Credit Suisse e consulente finanziario del Dicastero (entrambi imputati). Fu Crasso a introdurre Mincione come esperto nell’affare Angola. Dalla bocciatura di quell’investimento, come detto, si passò all’ipotesi di acquisto del prestigioso immobile londinese che Mincione ha ribadito che avrebbe voluto tenere per sé e “svilupparlo” con un progetto che prevedeva il cambio di destinazione d’uso e l’ampliamento con una struttura adiacente. Per la Santa Sede, secondo il finanziere, era un investimento “più conservative” del petrolio: “Con questo era chiaro che avrebbero perso tutto. Visto anche l’andamento del petrolio sarebbe stata la tomba finale”

Uscire dal fondo

La Segreteria di Stato aveva versato delle quote nel fondo Gof di Mincione. E, inizialmente “contenta” della gestione dell’affare petrolio, gli disse di “tenere i soldi e investire”. A metà del 2018 decise invece di uscire dal fondo, nonostante le raccomandazioni del “forte danno” che la liquidazione degli asset avrebbe potuto provocare. In aula non sono stati spiegati i motivi della scelta della Santa Sede, né chi l’abbia autorizzata. Mincione, interrogato in proposito, ha spiegato solo che nei primi mesi del 2018, ci fu “quasi un’escalation: ‘Cerchiamo di uscire”. 

“Io – ha detto Mincione – avevo sempre saputo che la Segreteria di Stato voleva vendere il Palazzo, non mi era stato mai detto che volesse comprarlo. All’inizio si era creato un malessere per l’esistenza del lock up (il vincolo all’investimento di 5 anni + 2). Le pressioni sono aumentate tra il gennaio e il marzo del 2018. Poi ancora più forti a giugno”. Tant’è vero che l’investimento previsto di 100 milioni di sterline per ristrutturare e valorizzare il Palazzo, e portarne il valore a 350 milioni, non è stato mai fatto. Tutto il mercato sapeva che alla fine volevamo venderlo a quella cifra”.

La compravendita del Palazzo

“Perplesso” da questa accelerazione, ma non preoccupato (“Nel mio lavoro contano numeri e contratti che si firmano, il resto sono chiacchiere”, ha ripetuto più volte), Mincione capì le reali intenzioni della Segreteria di Stato con una email del 9 giugno 2018 di Tirabassi che indicava il nome di un broker che avrebbe fatto un controllo del Palazzo per poi provare a liquidarlo. “Gli abbiamo fatto fare un giro in maniera educata, ma non era qualificato”. “Mica ho rifiutato”, ha chiarito Mincione: “Ho solo detto se ci porta il prezzo richiesto, ben venga”. Non se ne fece nulla, ma la “pressione” aveva agitato il finanziere: “Non ho dormito benissimo la sera”.

Torzi e Capaldo

Dalla mail di giugno si passa al 2 novembre, con un messaggio WhatsApp di Gianluigi Torzi (che Mincione ha detto di aver conosciuto solo nel dicembre 2017), il quale “si era proposto come broker per piazzare il Palazzo”. “Buon compromesso”, scrisse. E Mincione rispose con una emoji delle dita incrociate.

Sull’immobile, ha riferito l’imputato in aula, fece una “attentissima analisi” l’ingegnere Luciano Capaldo, socio di Torzi, divenuto poi collaboratore della Segreteria di Stato, ascoltato come teste durante le indagini. L’ingegnere, ha detto Mincione, in passato aveva affermato di ritenere irrealistica la valutazione di 350 milioni, ma a un certo punto portò un’offerta di acquisto da parte di uno sceicco che voleva acquistare l’immobile al 100%. La cifra era di 350 milioni. Lo sceicco però poi non si fece più vivo.

“Nuovo gestore”

Ricomparve Torzi dopo alcuni mesi con un messaggio in cui “getta la bomba”: “Credo di averti fatto un favore, divento io il nuovo found manager”, scrisse a Mincione. “Un favore non richiesto… Ho pensato: vuoi vedere che hanno venduto il Palazzo allo sceicco e ora mi dice che me lo compra a meno?”. Per Torzi il “favore” era di aver salvato Mincione “da un possibile conflitto” con la Santa Sede, anche perché, come gli disse una volta: “In Vaticano non ti amano”.

“Mi sembravano gossip al momento”, ha detto Mincione. Soprattutto riteneva impossibile che venissero fatte trattative senza la sua autorizzazione come gestore del fondo. Monsignor Alberto Perlasca, responsabile dell’Ufficio amministrativo, poi però gli scrisse a metà novembre: “Sono certo con la buona volontà di tutti, si troverà a trovare una soluzione di comune soddisfazione”.

La riunione di Londra

Le domande del Promotore e dei legali si sono concentrate a questo punto sulla riunione organizzata di lì a poco a Londra, il 20-22 novembre 2018, negli uffici di Torzi. Si doveva firmare il contratto per il passaggio al fondo Gutt di Torzi. Alla riunione erano presenti Tirabassi, Crasso e l’avvocato Manuele Intendente, presentato a Mincione come “capo della Gendarmeria”. “Tutti parlavano a nome della Segreteria di Stato”. Alle riunioni Mincione partecipò solo il primo giorno, “giusto per sentire il prezzo concordato”: “Non era una negoziazione, era uno status. Ho pensato, mi portano via una cosa che avrei voluto tanto sviluppare. Fu talmente una delusione che non volli più occuparmene”. Lasciò la questione all’ufficio legale che incaricò il prestigioso studio Herbert Smith Freehills. Al termine di quella riunione, com’è noto, Torzi divenne il nuovo gestore del Palazzo. La sua contropartita fu di 40 milioni di sterline.

Le prossime udienze si terranno il 22 e 23 giugno con un nuovo interrogatorio a Enrico Crasso.