Mazzucato: per combattere le discriminazioni occorre aprire canali di dialogo

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Tiziana Campisi – Città del Vaticano

Si celebra oggi la Giornata Internazionale della Pace, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1981 con l’obiettivo di rafforzare la volontà di pace tra le nazioni e i popoli. Dal 2001 è stata scelta come data fissa il 21 settembre e tramite una risoluzione si è convenuto di sospendere, in questo giorno, tutte le ostilità e la violenza nel mondo, invitando gli Stati membri dell’Onu, le sue organizzazioni, organismi non governative e i singoli individui a dare risalto alla giornata attraverso l’educazione, la consapevolezza e la condivisione dei valori della pace e la cooperazione attiva a tutti i livelli della vita sociale.

Il contributo della Strategic Alliance of Catholic Research Universities

Quest’anno le Nazioni Unite invitano a riflettere, in particolare, sul razzismo. A sottolineare il ruolo fondamentale dell’istruzione per combattere le disuguaglianze razziali è la Strategic Alliance of Catholic Research Universities (SACRU), rete che conta otto università cattoliche di quattro continenti, coordinata dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. L’Università Cattolica Australiana, il Collegio di Boston, la Pontificia Università Cattolica del Cile, la Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro, l’Università Sofia, l’Università Cattolica Portoghese, l’Università Cattolica del Sacro Cuore e l’Università Ramon Llull cooperano con l’obiettivo di promuovere un’istruzione globale per il bene comune e una ricerca interdisciplinare ispirata dall’insegnamento sociale cattolico. In occasione di questa giornata gli otto Atenei condannano le persistenti disuguaglianze alimentate dal razzismo, ulteriormente aggravate dalla pandemia di Covid-19 e dalla guerra in Ucraina e sottolineano l’importanza dell’educazione come veicolo per promuovere una cultura di pace.

La professoressa Claudia Mazzucato, docente di Diritto penale e Giustizia riparativa alla Cattolica del Sacro Cuore, spiega che il razzismo oggi non è da intendere soltanto come discriminazione legata all’appartenenza ad una determinata etnia e invita a riconoscerlo anche in diverse forme di esclusione sociale o in atteggiamenti discriminatori.

Ascolta l’intervista a Claudia Mazzucato

Come mai il razzismo è tornato ad essere un tema preoccupante?

È un tema preoccupante perché è diffuso, nascosto e ha delle forme nuove, diverse, che si affiancano alle forme più tradizionali. Adesso il razzismo si annida nella esclusione degli altri, nel non voler condividere. Pensiamo al non rendere accessibili a tutti le risorse essenziali per vivere. Sia le risorse alimentari le risorse idriche, l’ambiente sicuro, la salute, la scuola, la cultura e l’espressione di sé. È un fenomeno preoccupante perché stiamo vedendo, nel mondo e anche in Europa, l’emergere di estremismi violenti, che, ovviamente, non vogliono essere avvicinati al razzismo, ma attraverso linguaggi, attraverso certe espressioni, modalità di concepire la presenza degli altri, conducono alla esclusione violenta di qualcuno dalla vita insieme. Pensiamo all’ipocrisia che abita il mondo più evoluto, più ricco, di fronte alle persone più povere, più svantaggiate, di fronte a chi bussa alle porte di questo mondo ricco per accedere ai bisogni vitali. Ci sono forme di razzismo che si nascondono nei dettagli. Questo anche con gli studenti e con i dottorandi. Emerge, in alcune loro ricerche per le tesi di laurea, per le tesi di dottorato, come, per esempio, la burocrazia, e la burocrazia telematica, può diventare una forma terribile e invincibile di esclusione dall’accesso ai diritti e all’esercizio dei diritti. Secondo me, forse dobbiamo uscire dal termine “razzismo” e, nei testi giuridici, non parlare più di razza, di discriminazione razziale, sulla base della razza, e pensare al razzismo come qualsiasi forma di discriminazione aggressiva, violenta e di espulsione degli altri, di esclusione degli altri da ciò che vogliamo sia solo per noi.

Oggi, in quali forme è più diffuso il razzismo?

C’è la discriminazione su base etnica, c’è la discriminazione sulla base del genere, c’è la discriminazione sulla base della disabilità, della religione. Tutte queste forme hanno delle radici, delle dinamiche, che credo siano comuni e sono fondate su questa idea di non voler stare con gli altri, insieme, di non voler condividere con gli altri. Quindi di creare un “noi, loro”. E un “noi, loro” escludente a partire da una posizione esclusiva. Certo, c’è il razzismo nel modo più classico che conosciamo. Pensiamo alle discriminazioni sulla base del colore della pelle che sono molto presenti in certi luoghi del mondo. Ma pensiamo alle discriminazioni cui vanno incontro le persone migranti. Credo che si debba combattere la discriminazione dovunque essa sia. Poi c’è il problema dell’antisemitismo, che ha mille forme, e ancora ci sono discriminazioni nel mondo dello sport.

Su quali fronti occorre impegnarsi, in particolare, per combattere le discriminazioni?

È un lavoro enorme da fare, che coinvolge l’impegno di ogni Stato, della comunità internazionale, delle comunità locali, delle famiglie e degli individui. E quindi è un lavoro che, probabilmente, deve essere svolto in termini estremamente ben coordinati, attraverso politiche sociali, politiche economiche, attraverso politiche scolastiche, la formazione degli operatori delle amministrazioni pubbliche e delle istituzioni, nell’insegnamento a scuola, nelle università. Tutti siamo chiamati a lavorare su questo. Credo che sia veramente importante cercare di aprire canali di dialogo e di comprensione. Perché questi fenomeni si sradicano attraverso la persuasione, piuttosto che attraverso l’imposizione. Cercare di creare spazi, anche istituzionali, dove chi subisce la discriminazione, l’esclusione, l’ingiustizia di essere trattato in modo diseguale, avendo diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione, possa essere ascoltato, essere riconosciuto, essere protetto. Credo che non ci sia niente di più forte che incontrare una persona offesa da questi comportamenti nella sua umanità e vedere questa umanità rivelata nella sua uguaglianza a quella anche di chi non vuole vedere nell’altro un essere umano e viceversa.

Quale contributo può dare la vostra rete di università?

Secondo me il contributo è su più livelli. Il primo è dare un esempio, quindi cercare nel quotidiano, nel contatto con gli altri, nella comunità educante di una università. Una di rete di università come la nostra può fare sentire tutti accolti, rispettati e aiutarti a far fiorire quell’essere quel “come sono”, chi sono. E poi attraverso la cultura, attraverso la ricerca, attraverso lo studio, l’essere delle sentinelle, lanciare segnali d’allarme, essere capaci di lavorare per la prevenzione. E lavorare per la riparazione, quando, purtroppo, qualche offesa o evento lesivo nei termini di discriminazioni avvenute o episodi di razzismo sottile o manifesto si siano verificati. Credo che le università in questo, davvero, rappresentino un luogo che può fare tanto.