Mariupol, lo strazio di una città cancellata

Vatican News

Svitlana Dukhovych – Città del Vaticano

“Finché uno non lo vive sulla propria pelle, è molto difficile capire cosa sta veramente succedendo in Ucraina”. Dal 2011 fino al 5 marzo scorso padre Pavlo Tomaszewski, insieme ad altri due confratelli dell’Ordine di San Paolo Primo Eremita (Paolini) svolgeva la sua missione a Mariupol, la città ucraina che per la sua posizione strategica, soffre più delle altre dall’invasione dell’esercito russo. Il sacerdote è riuscito a fuggire, insieme al suo confratello ed alcuni parrocchiani, e adesso si trova a Kamjanec-Podilskyj, la sua città natale al sudovest del Paese. Da lì, racconta la sua storia in un incontro online con i giornalisti organizzato dalla fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre (ACS) per aiutare a capire cosa stanno vivendo tante altre persone che sono ancora intrappolate in quello che definisce “l’apocalisse”. Loro stessi non possono raccontare: fino adesso padre Pavlo non riesce a contattare le presone che sono rimaste a Mariupol perché lì non c’è l’elettricità e quindi i cellulari non funzionano.

Una invasione inaspettata

“Sebbene Maruipol si trova sulla linea della guerra già dal 2014, l’invasione che è iniziata il 24 febbraio, è stata inaspettata”, dice il sacerdote, aggiungendo che subito dall’inizio l’esercito russo ha bombardato i paesini circondanti e la parte orientale della città, colpendo non soltanto l’esercito ucraino ma anche i civili. Il frastuono arrivava al centro della città dove si trova la parrocchia della Madre di Dio di Czestochowa, curata dai Padri Paolini. “Avevo capito che la situazione era seria e che probabilmente dovremo evacuare la gente, – continua padre Pavlo, – però all’inizio tanti parrocchiani non volevano partire perché non pensavano che i bombardamenti si sarebbero propagati in tutta la città”.

Bombardamenti 24 ore su 24

Quindi i due sacerdoti (il terzo era in Polonia per le cure) avevano deciso di rimanere con la gente, di aiutarli, celebrare la Messa e pregare con loro. Dopo 4-5 giorni la situazione era peggiorata molto, i russi avevano iniziato a colpire, con diversi tipi di arma, i quartieri abitatiti nel centro della città. “I colpi non si fermavano per quasi quattro giorni, 24 ore su 24″, ricorda il sacerdote. “L’intensità dei lanci era così forte che uno non riusciva nemmeno a riprendere il fiato, non c’era nemmeno mezz’ora di silenzio né di giorno, né di notte”. I due confratelli non avevano nemmeno un rifugio per nascondersi; per sentirsi almeno un po’ più protetti, si mettevano nella stanza della loro casa che era opposta (e quindi protetta da una o più pareti) a quel lato da dove proveniva la maggior parte dei bombardamenti.

La paura e la fuga

Più o meno al terzo giorno dell’attacco a Mariupol, la città è rimasta senza l’elettricità e l’acqua. Uscire da casa significava correre il rischio di essere uccisi. Padre Pavlo ha perso il contatto non soltanto con i suoi parrocchiani, ma con tutto il mondo esterno. Nei brevi momenti quando compariva la rete, leggevano qualche notizia sul cellulare oppure ascoltavano la radio nella loro auto, però non a lungo perché dovevano risparmiare il carburante. “Non è stato facile prendere la decisione di partire, – dice –. Da una parte, avevamo paura che la nostra casa, una volta lasciata, poteva essere saccheggiata, dall’altra parte, capivamo che una bomba potrebbe distruggere sia la casa, che noi. E poi avevamo paura anche di capitare nelle mani dell’esercito russo che aveva circondato Mariupol”.

I controlli

Alla fine, i due confratelli hanno messo in macchina le cose più necessari, i documenti, hanno indossato gli abiti sacerdotali e si sono diretti verso l’uscita per Zaporizhzhia che si trova a 220 km da Mariupol. Per strada si sono uniti ad altre 5-6 auto private che cercavano di uscire dalla città. Passando per le strade vedevano una scena straziante: i palazzi distrutti, le auto bruciate, le persone che cercavano qualcosa nei negozi abbandonati. La piccola colonna delle auto ha passato alcuni block-post dell’esercito russo dove li hanno controllato i documenti e li hanno fatto proseguire. A un certo punto, dopo circa 20 km, c’era un altro posto di blocco dei russi che gli dicevano che il giorno prima avrebbero ricevuto l’ordine di non far passare più gli uomini, ma soltanto le donne ed i bambini. “Dovete immaginarvi questa scena, – dice padre Pavlo, – eravamo in mezzo ai campi, al freddo, c’era una lunga fila di macchine (circa un centinaio), gli uomini al volante con le loro mogli e figli. E non c’era nemmeno possibilità di tornare indietro. Alcuni non avevano tanto carburante. Le persone si avvicinavano a piedi ai soldati, le donne si inginocchiavano, implorandoli di farli passare anche perché tante donne non sapevano guidare la macchina, ma era invano”.

Il dolore più grande

Dopo circa cinque ore improvvisamente qualcosa è cambiato: è arrivato il sindaco di un paesino vicino e ha detto che vorrebbe accogliere per la notte tutta la gente che sta nelle macchine. Gli abitanti del paesino hanno accolto gli abitanti di Mariupol (circa 400 persone) nelle loro case. Il giorno seguente sono riusciti a trovare un’altra strada che evitava quel block-post che li aveva fermati, e si sono diretti verso Zaporizhzhia. Poi c’erano altri posti di blocco, di nuovo ansia, però riuscivano a proseguire e finalmente sono arrivati vivi alla loro meta. Per padre Pavlo questi eventi fanno ancora parte del presente e non vuole dimenticarli perché lì a Mariupol c’è ancora la sua gente. “Quello che mi preoccupa più di tutto, ed è anche il mio dolore più grande in questo momento è che le persone della mia parrocchia rimangano vive. Spero che Dio li protegga…”, dice. E implora tutti di fare il possibile per fermare questo massacro.