L’uomo pio che premeva i pulsanti

Vatican News

di Dale S. Recinella

Incontrai Marcus Hepburn oltre trent’anni fa, ad un fine settimana di Rinnovamento Spirituale nella Parrocchia del Buon Pastore di Tallahassee, in Florida. Era la fine degli anni ’80, quando i partecipanti a questo tipo di incontri in parrocchia si contavano ancora sulla punta delle dita. Lui e sua moglie Toni, ricca di spiritualità, avevano perso da poco la loro splendida figliola, morta per una malattia. La loro risposta istintiva fu di incanalare la tremenda energia del loro dolore nella dedizione ad altre persone sofferenti.

Nel 1991 inizio ad assistere i detenuti pregando con loro nell’Istituto Correzionale Apalachee (ACI) di Sneads, circa 80 km a ovest di Tallahassee. Dopo poco tempo, mi sembra del tutto naturale invitare Marcus a venire con me nella cappella del carcere ogni sabato mattina. Marcus è d’accordo di provare e, con i suoi modi cortesi e sempre socievoli, propone di invitare anche un’altra persona. Si tratta di Michael Savage, un membro del programma di Rinnovamento Spirituale della parrocchia vicino alla nostra, il Santissimo Sacramento. Il programma in questa parrocchia era stato avviato dal team della nostra, e fu così che avevamo conosciuto Mike.

Nel giro di poco tempo, Marcus e Mike si uniscono a me nell’assistenza spirituale ai detenuti di ACI. Ogni settimana ci presentiamo lì con scatoloni di ciambelle preparate il giorno prima alla mensa dei poveri Good News. Mentre io gestisco incontri individuali di preghiera di mezz’ora in una stanza separata, Marcus e Mike tengono studi biblici e lezioni di catechismo nella cucina della cappella.

Quindici anni dopo, nell’estate del 2008, Mike e il neo-ordinato Diacono Marcus vengono con me una volta al mese a trovare, passando di cella in cella, i condannati a morte e i detenuti in isolamento a lungo termine. Guidano per due ore al mattino prestissimo dal Buon Pastore a Tallahassee, per incontrarmi nella chiesa di Santa Maria a Macclenny alle sette del mattino. Per il Diacono Marcus è uno shock scoprire che devono lasciare Tallahassee prima che apra il bar Starbucks. Dovrà accontentarsi dell’autogrill lungo il percorso.

Ma una sorpresa ancora più grande aspetta il Diacono Marcus nelle ali di isolamento del Carcere Statale della Florida. Mentre lui sta visitando coscienziosamente le 33 celle sul piano ammezzato di un’ala del reparto di isolamento, io e Mike ci accorgiamo del crescendo di voci irose che arriva dall’atrio aperto al terzo piano dove siamo noi. Quando torniamo giù nell’area dove ci sono le guardie, il rumore è impressionante.

“Marcus, cosa hai fatto?”, chiedo preoccupato. “Perché sono tutti così arrabbiati?” “Non ne ho idea.” Il Diacono Marcus è il ritratto dell’innocenza. “Ho solo offerto loro materiale di lettura e di pregare con loro. Ma tutti continuavano a urlarmi una parola. Penso cominciasse con la lettera p.”

Quando finalmente riesco a smettere di ridere e posso ricominciare a parlare, anche le guardie stanno ridendo come me e Mike.
“Marcus, stanno dicendo ‘Premi’. I detenuti in isolamento non possono premere il pulsante dello sciacquone del gabinetto nella loro cella. Il pulsante si trova fuori dalla cella sul muro accanto alla porta. Stanno gridando ‘Premi’.”

Un uomo di calibro inferiore avrebbe trovato scuse o si sarebbe limitato a lasciare l’ala. Non il Diacono Marcus. Si erge in tutta la sua statura, la mano destra puntata verso l’alto, ed esclama: “E noi premeremo!”. Torna davanti a ogni cella, chiede scusa attraverso la solida porta d’acciaio a ogni singolo uomo, uno alla volta, e, con un brio degno di Fred Astaire, preme sorridendo il bottone dello sciacquone per tutti i 33 gabinetti, uno alla volta. I detenuti nelle celle esplodono in un applauso.

Non stupisce che i detenuti da lui incontrati in quelle celle durante tutte le sue visite ricambiassero il suo entusiasmo contagioso e il suo amore sincero. Fu terribile per me informare tante centinaia di uomini che il Diacono Marcus era tornato alla Casa del Padre l’8 giugno 2010. I sentimenti di un detenuto espressero quelli di tutti noi: “Accidenti, perché Dio prende sempre i migliori?”

Diacono Marcus, ci lasci un’eredità di servizio gioioso che sarà sempre di ispirazione e di sfida per coloro che verranno a trovare i detenuti. Che esempio importante da ricordare in questo periodo natalizio!
Il carcere può essere un luogo molto duro dove celebrare il Natale. Imparo questa lezione quando trascorro per la prima volta la vigilia di Natale assistendo i detenuti in una prigione della Florida.

È la mattina della vigilia di Natale del 2006. Ho accettato una lista di appuntamenti per assistenza pastorale, fornitami dal cappellano del carcere. Nulla avrebbe potuto prepararmi a questo.
Attraverso la postazione delle guardie di ACI West e recupero le mie chiavi della cappella.

Le spire di filo spinato sono ammassate per un’altezza di due piani lungo le tre file di recinti elettrificati. Le punte argentee brillano come festoni ornamentali nell’aria frizzante del mattino. Una dozzina di detenuti mi osserva dall’altra parte. Sono ammassati vicino al cancello che separa la cappella dal terreno del carcere. “Buon Natale”, mi sorride la guardia. Sento un nodo allo stomaco.

Preme il bottone che sblocca grossi chiavistelli elettrici nelle porte d’accesso in acciaio. Un rumore forte echeggia attraverso il passaggio di uscita. Entro nel carcere. Il nodo nella mia pancia si stringe ulteriormente.
I detenuti al cancello battono le braccia, cercando di scaldarsi nel freddo di dicembre. Nuvolette di fiato sono sospese davanti alle loro uniformi blu.

Perché questa immagine mi agita? I dettagli non sono diversi dal solito. Dovrebbe essere esattamente un giorno come gli altri per me che assisto spiritualmente i detenuti nell’Istituto Correzionale Apalachee in Florida.
Questo però non è un giorno qualunque. È la vigilia di Natale. La mia prima vigilia di Natale dietro le sbarre.

In quel momento, mi stupisco di non aver mai pensato come sia il Natale nelle nostre carceri americane.
Gli appuntamenti con i volontari nella cappella vengono fissati per “richiesta”, domande scritte da presentare all’amministrazione. Apriamo la cappella. Un dipendente mi porge la lista di quel giorno: diciannove richieste. Normalmente in una mattina ce ne sono cinque.

Telefono a mia moglie: “Resterò qui al carcere fino alle 18”.

Mi sbaglio. Non chiuderò la cappella che alle 21,30 di quella viglia di Natale.

Ma non avrei potuto saperlo prima. È la mia prima visita al carcere la mattina prima di Natale.

Mi butto su un caffè e sul primo appuntamento con un detenuto alle 8,30. Preghiamo e gli chiedo: “Cosa c’è nel tuo cuore questa mattina?”

“Mi dia una buona ragione perché non mi precipiti verso il muro”, sussurra. Sappiamo entrambi che nel gergo carcerario questa espressione significa simulare un tentativo di evasione davanti alle guardie, nella speranza che loro debbano ucciderti.
Si dice che alcuni uomini l’abbiano fatto quando hanno ricevuto una lettera della moglie che chiede il divorzio o la notizia della morte di un figlio. Il Natale può essere così doloroso?

Parliamo, piangiamo, preghiamo. Un uomo dopo l’altro, un’uniforme blu dopo l’altra. Assassini. Stupratori. Molestatori. Nessuno a cui telefonare a Natale. Nessuno a cui scrivere. Nessuno che venga a trovarli. Le loro famiglie sono troppo lontane per fare loro visita. I loro figli sono stati allontanati e adottati da altre persone.

Alle 17 circa, dico al personale del carcere che ci servono più salviette di carta. I rotoli di carta igienica che abbiamo aperto al mattino sono già tutti esauriti. L’ultimo appuntamento è con un uomo intelligente e loquace, ha avuto incontri con me tutto l’anno.

“Non dico che non dovrei essere qui”, le lacrime si affacciano ai suoi occhi, “ho fatto cose terribili e non so neppure il perché. Posso capire che la società mi voglia dietro queste sbarre. Ci rimarrò per il resto della vita. Ma sono un essere umano. Ho comunque bisogno di amici e di relazioni con persone normali. Sono battezzato, sono un cristiano praticante. Natale è il nostro giorno. Dove sono i Cristiani?”.

La mia risposta stupida sulle persone che confondono la compassione verso chi ha agito male con l’approvazione del loro cattivo comportamento lo fa solo arrabbiare. “Gesù ha detto che quando i Suoi seguaci fanno visita a un detenuto, fanno visita a Lui!” afferra il rotolo di salviette con entrambe le mani. “Gesù non ha detto che il detenuto doveva essere innocente. Perché nessuno viene a far visita a Gesù a Natale?”
Guardo altrove e balbetto: “Non lo so”.

Presto arriva per noi il momento di salutarci.
“Per cosa vuoi che preghiamo?”, gli chiedo.
Si reclina sullo schienale della sedia, come per chiedere attraverso il soffitto al cielo sopra di lui. “Cosa voglio che Dio mi regali per Natale?”
“Esatto”, rispondo.
“Desidero che ogni Natale tutte le prigioni della Florida siano piene zeppe di tutti i Cristiani che vengono a far visita a Gesù”
“Fratello”, dico cautamente, “questa preghiera potrebbe impiegare molto tempo ad essere esaudita.”
Scrolla le spalle: “Tanto io sarò qui”.