Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano
Ci sono bambini, a Lesbo, che pensano che il mondo sia tutto quello lì. Che le case siano un tendone bianco dove l’inverno il vento ghiaccia le pietre e l’estate il sole picchia sulla testa, che il posto letto debba essere condiviso con altri bambini di altre famiglie, che il pasto si consumi una sola volta al giorno e che ci si lavi con l’acqua del mare. Sono i bambini nati e finora cresciuti nel Reception and Identification Centre di Mytilene, il campo profughi allestito lo scorso anno con il sostegno dell’Unione Europea e in collaborazione con il governo greco per dare riparo agli oltre 12 mila rifugiati finiti per strada dopo il devastante incendio dell’8-9 settembre 2020 del campo Moria. Ovvero il campo dove Papa Francesco si recò in visita nell’aprile 2016, in un’unica, breve, significativa tappa che riannodava il filo cominciato a tessere tre anni prima con il “pellegrinaggio” a Lampedusa: quello di farsi presente in mezzo alla “carne ferita” di migliaia di persone, soprattutto famiglie, fuggite dalla propria terra e costrette a stazionare in posti in cui definire difficili le condizioni di vita sarebbe retorico e riduttivo.
“Un carcere a cielo aperto”
Cinque anni dopo Francesco torna in queste terre, specchio che riflette il dramma di un intero continente. Alle 09.45 ora italiana, il Pontefice solcherà i 34 ettari del nuovo campo che ha preso il posto del sovrappopolato Moria e che ha raccolto una parte dei profughi residenti negli insediamenti ‘non ufficiali’ di Samos e Chios. In totale nel Reception and Identification Centre sono presenti oggi circa 2.300 persone, perlopiù famiglie o donne coi loro figli. Francesco li incontrerà di persona e vedrà con i propri occhi quel luogo descritto come “un carcere a cielo aperto” da chi lo visita più volte all’anno. Proprio questa è l’espressione che usa Dawood Yosefi, giovane afghano che di migrazione s’intende non solo per il lavoro come volontario della Comunità di Sant’Egidio, ma perché sulla pelle porta ancora i segni dei lunghi viaggi a piedi, sotto i camion, nei gommoni sull’Egeo, per fuggire dalle persecuzioni del suo Paese.
L’arrivo del Papa, in questo contesto, rappresenta dunque un fascio di luce sulle ombre dei confini europei. “È l’unico tra i leader a parlare con insistenza del dramma dei rifugiati, delle difficoltà e del fenomeno della migrazione”, afferma Dawood Yosefi. Anche venerdì, nella preghiera ecumenica a Nicosia, il Pontefice non ha risparmiato la sua denuncia contro una tragedia che avviene sotto i nostri occhi. “Dà speranza ciò che dice il Papa, anche perché oltre alle parole fa seguire anche i fatti…”. Come nel 2016, quando tornò da Lesbo con a bordo sull’aereo papale un gruppo di profughi, portati a Roma dove sono stati ‘accolti, protetti, promossi e integrati’. “Con il suo gesto, il Papa ha mostrato all’Europa e a tutti noi che non è difficile accogliere chi è in difficoltà. Che si possono trovare soluzioni legali per regolare questo fenomeno e, soprattutto, che l’indifferenza e la paura non portano da nessuna parte. Quello delle migrazioni non è un’emergenza ma una realtà che bisogna affrontare, perché c’è oggi, c’è stata in passato e sempre ci sarà”.