Chiesa Cattolica – Italiana

L’eredità spirituale dei monaci di Tibhirine rapiti 25 anni fa

Antonella Palermo – Città del Vaticano

I rapitori cercavano sette monaci. In realtà, in quella notte, i monaci presenti erano nove: Bruno, arrivato da Fès per l’elezione del priore e Paul, giunto la sera prima dalla Savoia dopo una visita alla famiglia. Entrambi furono prelevati. Le teste delle vittime vennero fatte ritrovare a fine maggio nei pressi di Medea, poco distante dal monastero. L’8 dicembre 2018 i monaci di Tibhirine sono stati beatificati a Orano, insieme ad altri dodici martiri d’Algeria, uccisi tra il 1994 e il 1996.

Le origini del monastero

Concepito come i grandi monasteri dell’Occidente, Tibhirine era stato costruito come una fortezza, al centro di una grande proprietà, dove i monaci pregavano, lavoravano e vivevano in una vita semplice e fraterna, a contatto e a servizio soprattutto dei correligionari, ma prestando anche aiuto materiale e indicando agli abitanti del luogo, di origine berbera, un modo razionale e moderno di praticare l’agricoltura. Per circa trent’anni, Tibhirine visse come propaggine di un monastero francese in terra algerina. Con la guerra d’indipendenza, ci fu il grande esodo dei cristiani; i monaci restarono in condizioni di povertà, solidali con la sparuta Chiesa algerina. L’elezione di Christian de Chergé a priore della comunità nel 1984 segnò una svolta e impresse una direzione più decisamente rivolta al dialogo e alla comprensione del patrimonio religioso dei vicini musulmani. Lo stile era quello che lui definiva di “oranti in mezzo ad altri oranti”.

I monaci di Tibhirine

Uomini di Dio, una presenza fraterna

Quella che praticavano questi monaci era una accoglienza amichevole e fraterna, nella fiducia di essere accolti anch’essi dai propri vicini. Incarnavano un dialogo della vita, in uno spirito di autentica interculturalità, con il rispetto della fede dell’altro e il desiderio di comprendere l’islam. Con un profondo amore per la terra dove il Signore li aveva inviati, l’Algeria. Con un’attenzione e una delicatezza evangelica verso quel popolo, specialmente nei confronti dei più umili, così come dei giovani. Con un grande senso di appartenenza alla Chiesa algerina: una Chiesa “ospite”, piccola, umile, serva e amorevole. Non hanno dato la vita per un’idea, per una causa, ma per Lui. La loro vicenda di fedeltà all’amore e alla missione in terra algerina ha toccato il cuore anche di tanti non credenti con il film “Uomini di Dio”, di Xavier Beauvois, che ha portato sullo schermo con straordinaria efficacia la vicenda drammatica di questi martiri. In silenzio, scortati dai loro rapitori sparivano nella nebbia su un sentiero di montagna innevato. La loro fine la si lascia solo intuire.

L’Algeria nel caos e la decisione di restare

Gli algerini avevano deciso di intraprendere la via del socialismo, ma senza raggiungere i risultati sperati. Nel 1988 il Paese era a tal punto degradato che i disordini nella capitale e in altre città divennero continui. L’Algeria si consegnò a un islam rigorista che dichiarava guerra all’Occidente corrotto. L’intera regione di Medea, dove si trovava il monastero di Tibhirine, era un feudo del Fronte islamico di salvezza, che nel 1990 aveva vinto le elezioni nella maggior parte dei comuni algerini. A inizio 1992 l’esercito interviene con un colpo di Stato: annulla le elezioni e scioglie il partito vincente. Nascono allora i gruppi armati: l’Esercito islamico di salvezza e il Gruppo islamico armato: vengono attaccati anche i civili e si intima agli stranieri di lasciare il Paese. L’Algeria piomba nel caos e nella guerra civile, una lotta spietata per mantenere o per conquistare il potere.

Semplicimente cristiani

Il martirio dei sette monaci trappisti del monastero algerino di Tibhirine assume oggi un significato particolare alla luce del messaggio dell’Enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco. Come testimonia il testamento spirituale del Priore del monastero, Christian de Chergé, la vita spirituale e la morte dei sette religiosi francesi in un Paese a maggioranza musulmana, sono oggi un modello di dialogo e convivenza interreligiosa non solo per la Chiesa algerina ma per quella universale. Di questi temi hanno parlato, alla Radio Vaticana, François Vayne, giornalista e scrittore, nato e vissuto in Algeri – coautore del libro “Semplicemente Cristiani. La vita e il messaggio dei beati martiri di Tibhirine”, LEV, 2018 – ed Elena Dini, esperta di dialogo interreligioso, in particolare dei rapporti islamo-cristiani, e Senior program manager del John Paul II center for interreligious dialogue. Ascolta il podcast del programma, condotto da Fabio Colagrande

La Beatificazione

Era l’8 dicembre 2018. I sette monaci trappisti salivano agli onori degli altari, insieme ad altre dodici vittime uccise in odio alla fede tra il 1994 e il 1996. Il rito di Beatificazione aveva luogo in Algeria, presso il Santuario di Notre-Dame de Santa Cruz, a Orano, dove era stato vescovo il domenicano Claverie, l’ultimo a essere assassinato il 1° agosto 1996. “Rendere omaggio ai 19 martiri cristiani – afferma padre Georgeon, postulatore della causa – significa rendere omaggio alla memoria di tutti coloro che hanno dato la loro vita in Algeria negli anni Novanta”. Furono quasi duecentomila infatti le persone – in gran parte comuni cittadini, ma anche giornalisti, attivisti per i diritti umani, intellettuali e imam – massacrate negli anni bui del terrorismo islamista.

Papa Francesco: uno stimolo a costruire insieme un mondo di fraternità

“Questi martiri del nostro tempo sono stati fedeli annunciatori del Vangelo, umili costruttori di pace ed eroici testimoni della carità cristiana: un vescovo, sacerdoti, religiose, religiosi e laici. La loro coraggiosa testimonianza è fonte di speranza per la comunità cattolica algerina e seme di dialogo per l’intera società”, così il Pontefice dopo la preghiera dell’Angelus nella Solennità dell’Immacolata Concezione. “Questa Beatificazione sia per tutti uno stimolo a costruire insieme un mondo di fraternità e di solidarietà”. E ancora, nel Messaggio per la Beatificazione Francesco usa queste parole: “Facendo memoria della morte in Algeria di queste diciannove vittime cristiane, i cattolici dell’Algeria e del mondo vogliono celebrare la fedeltà di questi martiri al progetto di Pace che Dio ispira a tutti gli uomini. Vogliono, allo stesso tempo, includere nella loro preghiera tutti i figli e le figlie d’Algeria che sono stati, come loro, vittime della stessa violenza per aver vissuto, con fedeltà e rispetto dell’altro, i loro doveri di credenti e di cittadini in questa terra benedetta”. Anche nel suo

Lo stesso priore Christian de Chergé, nel suo testamento spirituale, chiedeva che la morte che vedeva incombere su di sé fosse associata alle “tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato”. Nel luogo dove dimoravano i monaci uccisi, a mille metri d’altezza, sui Monti dell’Atlante, oggi vive la Comunità di Chemin Neuf: padre Eugène, già missionario in Congo, che ogni mese guida il ritiro della comunità Pime ad Algeri; Blandine e Félicité che si occupano del grande frutteto e dell’orto; Yves che accompagna turisti e pellegrini nelle visite e Brigitte, che nutre tutti e produce ottime marmellate. Il silenzio è interrotto solo dalle grida dei bambini del villaggio che vanno a scuola e dai visitatori che sono diventati tantissimi: al 90% di musulmani algerini, a volte adolescenti, spesso giovani e famiglie, qualche volta adulti o anziani che hanno conosciuto i monaci. Un monastero vivo, che invita alla meditazione, che regala la pace, come scriveva frère Christophe in una delle sue poesie: “L’Eterno per me si è fatto TI AMO. Andiamo, andiamo mio benamato, andiamo in pace”.

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