Chiesa Cattolica – Italiana

L’effimero e l’eterno

Paolo Ondarza – Città del Vaticano

Effimeri, fragili, delicati e quindi rari e preziosi.  I modelli in creta cruda, realizzati nel XVII secolo, secondo una consolidata prassi antica, prima della fusione in bronzo delle sculture definitive, sono andati in gran parte perduti. Le collezioni vaticane conservano alcuni esemplari, unici e straordinari, sopravvissuti alla storia, testimonianza della grande stagione artistica del Seicento romano: nati come bozzetti preparatori, oggi sono ritenuti capolavori, palpitante testimonianza dell’attimo felice della creazione artistica.

© Musei Vaticani

La firma impressa nell’argilla

Particolarmente pregiati quelli plasmati dalle mani di Gian Lorenzo Bernini, regista della Roma barocca, scultore che, come scrivevano i contemporanei, sapeva dare alle sue creazioni il tepore della carne e autore dei simboli del tempio della cristianità commissionati da Papa Alessandro VII Chigi: il Colonnato di Piazza San Pietro e l’altare della Cattedra nella Basilica Vaticana. A quest’ultimo sono da ricondurre sei tra i sette modelli berniniani: due coppie di angeli e due teste di Dottori della Chiesa, Sant’Atanasio e San Giovanni Crisostomo. Un quinto angelo inginocchiato, sempre in creta cruda, fu invece ideato dallo scultore per l’altare del Santissimo Sacramento.

© Musei Vaticani

Destinati alla distruzione

Di proprietà della Fabbrica di San Pietro, in deposito permanente presso i Musei Vaticani ed esposti nella Pinacoteca, i sette modelli berniniani, databili tra il 1661 ed il 1673, furono ideati sia per valutare in anticipo l’effetto finale delle sculture, sia per ottenere le forme per la colata in bronzo, un’operazione che generalmente ne comportava la distruzione.

© Musei Vaticani

Angeli per il trono di Pietro

Le due coppie di angeli in modo particolare testimoniano l’iter movimentato, fatto di disegni, bozzetti, prove, modifiche, cambiamenti che ha caratterizzato la realizzazione della Cattedra di San Pietro: il monumento rivestiva infatti un alto valore simbolico dovendo contenere, come un reliquiario, il trono ligneo appartenuto secondo la tradizione al primo Papa e vescovo di Roma. Pochi sanno che il seggio regale verso cui convergono gli sguardi dei pellegrini che attraversano la Basilica di San Pietro è in realtà quello utilizzato nel Natale dell’875 per l’incoronazione imperale di Carlo il Calvo.

L’altare della cattedra nella Basilica Vaticana

Anche i “Maestri” sbagliano

Sei anni prima del gennaio 1666, data dell’inaugurazione di quell’incredibile e complicata macchina scenografica fatta di bronzo e stucco dorato che oggi possiamo ammirare dietro il Baldacchino, Bernini dovette fare i conti con un errore di progettazione. Si accorse infatti che i primi due angeli preparati per la fusione erano troppo piccoli rispetto alle imponenti dimensioni dell’abside. Da qui la decisione di realizzare un’altra coppia di creature celesti, più grandi e dalle movenze modificate.

© Musei Vaticani

Bernini, Leonardo e l’attimo creativo

I documenti dell’epoca riferiscono di carrettate di creta giunte nel cantiere vaticano insieme a fascine di fieno fornite dal fienarolo, chiodi, pezzelle, fili di ferro, mazzi di spago e numerose libbre di cimatura. Erano gli ingredienti dell’impasto, non cotto e quindi particolarmente friabile, lavorato e modellato per ottenere i modelli che incredibilmente recano impresse le impronte digitali di Gian Lorenzo Bernini. Un dettaglio che vale molto più di una firma perché rimanda alla genesi dell’opera d’arte, all’esperienza fisica della creazione, al segno unico e irripetibile lasciato dall’artista sulla materia. Il pensiero per un attimo corre ad un altro capolavoro della Pinacoteca Vaticana: il San Girolamo di Leonardo da Vinci. Sulla tavola di noce dipinta ad olio attorno al 1480 gli studiosi hanno rinvenuto le impronte del grande genio rinascimentale che per ammorbidire i contorni netti delle figure utilizzò la cosiddetta tecnica del “finger painting”.

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I tralci di vite

Ci avviciniamo e osserviamo l’angelo inginocchiato per l’altare del Santissimo Sacramento. Come gli altri esemplari destinati alla Cattedra, alti fino a 2,50 metri,  anch’esso è costituito da un’armatura di ferro battuto e ha le ali attaccate al corpo tramite chiodi, gesso e canapa. Le fessure nell’argilla lavorata consentono di distinguere nitidamente l’intreccio composta da fascine di tralci di vite ed altre fibre vegetali raccolte con spago, sul quale sono stesi e lavorati strati di creta e fieno. La fantasia e la suggestione inducono ad immaginare una fornitura di sfalci proveniente dai numerosi vigneti che nel Seicento popolavano l’area attorno al colle Vaticano.

© Musei Vaticani

Il restauro a vista

Un recente restauro, durato dieci anni ed eseguito all’interno di una struttura trasparente sotto lo sguardo dei visitatori dei Musei, ha messo in atto una disinfestazione anossica del legno e della paglia; lo stato di questi due ultimi elementi era compromesso dall’attacco di insetti xilofagi. Il trattamento è stato effettuato tramite immissione di azoto allo stato gassoso in una camera sigillata per circa due mesi. Anche gli elementi in ferro sono stati stabilizzati rallentando i processi di corrosione e degrado. Tramite strumentazioni prese in prestito dalla odontotecnica si è quindi provveduto a consolidare la struttura delle sculture con numerose micro-riadesioni.

Sui cinque modelli degli angeli berniniani sono state trovate tracce di scialbatura bianca. Risalgono molto probabilmente ad un restauro settecentesco realizzato quando le opere vennero raccolte e sistemate nel Museo dei Modelli di Clemente XI all’interno della Torre dei Venti in Vaticano.

© Musei Vaticani

Una pratica in uso nel Seicento    

Da bozzetti destinati all’oblio, ad opere elevate al rango di capolavori: la sorte e la tecnica esecutiva accomunano questi sette modelli in creta cruda ad un’altra opera di inimitabile bellezza: il coevo Crocifisso Alamandini, custodito nei depositi dei Musei Vaticani, opera di Alessandro Algardi, l’autore del monumento funebre di Leone XI e della grande pala marmorea raffigurante ‘L’incontro di Leone Magno con Attilla’, entrambi nella Basilica di san Pietro.

© Musei Vaticani

Algardi e il Crocifisso Alamandini

Rivali in vita, scultore prediletto dai Barberini l’uno, accreditato come il migliore presso i Pamphili l’altro. Protagonisti rispettivamente del Barocco e della corrente classicista del Seicento. Bernini e Algardi sono posti a confronto ancora una volta per la più unica che rara sopravvivenza fino ai nostri giorni, di queste inimitabili opere in argilla. Per un’ironia del destino si sono perse le tracce del crocifisso bronzeo commissionato ad Algardi nel 1641 dal conterraneo bolognese Ercole Alamandini. È sopravvissuto invece  il modello per la fusione, donato dallo scultore all’allora rettore della distrutta chiesa di santa Marta in Vaticano, poi trasferito nel Palazzo del Governatorato ed infine giunto nei Musei Vaticani. Argilla su una struttura in ferro riempita con paglia costituiscono i materiali di cui è composto questo crocifisso che, rifinito con colori stemperati nella cera, è divenuto un’opera d’arte autonoma.

© Musei Vaticani

Algardi come Lisippo

Contemplando nell’immobilità del corpo di Cristo morto e nel lieve movimento del panneggio, la pace della morte e la grandezza del Salvatore, non appare azzardato il paragone fatto dai contemporanei tra il Crocifisso Alamandini e lo stile dell’antico scultore greco Lisippo, maestro della grande tradizione scultorea ellenistica.

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