Chiesa Cattolica – Italiana

L’Afghanistan e la questione centrale della libertà di coscienza

Martino Diez *

Mentre i talebani annunciano la formazione di un governo ad interim, due preoccupazioni si rincorrono nelle dichiarazioni della comunità internazionale: riguardano il livello di “moderazione” e di “inclusività” del nuovo esecutivo. In realtà, queste espressioni tradiscono la difficoltà a pensare il fondamentalismo islamico secondo le sue stesse categorie. Duro da accettare, ma non tutti i fenomeni sociali e politici si lasciano ricondurre alla metafora del centro e degli estremi, nata originariamente per descrivere gli emicicli parlamentari. Né la vaga categoria di inclusività è di per sé garanzia di successo per un esperimento politico.

Proviamo allora a riformulare le stesse questioni in termini più vicini se non alla realtà afghana (che ben pochi possono dire di conoscere di prima mano) quanto meno alle sue categorie politico-religiose. La prima, la più importante: che regime politico hanno istituito i talebani? La risposta la offre già l’articolo 1 della bozza di Costituzione preparata nel 1996: «L’Afghanistan è un emirato islamico».

Tra “mitologia dell’imamato” e “ideologia del sultanato”

In realtà, al centro del pensiero politico dell’Islam classico non c’è l’emiro, ma il califfo. È a questa figura unitaria che andrebbe idealmente affidata la guida della comunità dei credenti. Ed è intorno ad essa che si sono catalizzate le prime divisioni, tra cui quella tra sunniti e sciiti. Eppure non di rado accade che la teoria vada da una parte e la storia dall’altra. Così, mentre gli ulema discutevano di modalità di elezione, qualifiche e compiti del califfo, il suo potere andava sempre più riducendosi: una a una tutte le province dell’impero islamico si resero indipendenti, pur mantenendo una dipendenza formale dal califfo di Baghdad. Erano nati gli emirati, gli embrioni dei futuri Stati musulmani: province affidate a un capo militare, l’emiro appunto, alcuni dei quali col tempo avrebbero assunto il titolo di sultano. Al califfo restava solo Baghdad e poco più al punto che il viaggiatore ebreo Beniamino di Tudela, provenendo dalla lontana Spagna, lo paragonò al Papa (!). L’invasione mongola dell’Iraq nel 1258 assestò il colpo definitivo e da allora il mondo islamico vive senza un califfato universale, nonostante vari tentativi di riattivare l’istituzione sotto i mamelucchi egiziani e i turchi ottomani.

Mentre diverse istituzioni islamiche, come al-Azhar, hanno affermato in tempi recenti, anche in risposta al trauma di ISIS, che il califfato rappresenta un’istituzione politica del passato, sostituita oggi dallo Stato nazione e dal concetto di cittadinanza, i gruppi jihadisti continuano a essere affascinati dalla possibilità di riesumarlo. E i talebani? Sulla carta, il loro movimento ha un orizzonte afghano e anzi offre un perfetto esempio di quella commistione di “spirito di corpo” e “tinta religiosa” che il grande storico maghrebino Ibn Khaldun aveva identificato, nel lontano 1400, come motore del cambiamento nelle società islamiche.

Tuttavia l’emirato, nella giurisprudenza islamica a cui i talebani si rifanno, è afflitto da una pericolosa malattia, o più precisamente da un deficit cronico di legittimità religiosa. In fin dei conti, come si diventa emiri? Per gli ulema il semplice fatto di impadronirsi del potere sarebbe prova sufficiente della sua legittimità perché – ragionano – se Dio non lo avesse voluto, non lo avrebbe permesso. Insomma, siamo di fronte a una logica del puro fatto compiuto, una “ideologia del sultanato” secondo l’espressione proposta dal filosofo marocchino al-Jabri nella sua critica della ragione politica araba. Da qui un’instabilità strutturale delle dinastie – quattro generazioni al massimo nella visione di Ibn Khaldun – e una storia punteggiata di rivolte e colpi di stato. Per ovviare a questo stato di cose, l’emirato classico è perennemente di fronte a un bivio: o evolve verso le forme di uno Stato dinastico a dimensione nazionale, come storicamente è avvenuto in Arabia Saudita, o tenta l’upgrade a califfato, ovvero, per citare ancora al-Jabri, il passaggio dall’ideologia del sultanato alla mitologia dell’imamato, magari nella forma di un movimento messianico.

Ed è esattamente questa l’alternativa che oggi si pone ai talebani. Da un lato, la sconfitta del 2001 e la ventennale traversata nel deserto ha insegnato loro quanto rischioso sia attirarsi l’ostilità globale. Dall’altro però il titolo stesso del loro leader religioso, “comandante dei credenti”, è quello di un potenziale califfo e le prevedibili difficoltà che incontreranno quando dai proclami media-friendly si tratterà di passare alle decisioni in fatto di amministrazione, economia, gestione della complessità etnica e religiosa, potrebbero rendere necessaria una virata massimalista. Questa tensione del resto si era già espressa nella Costituzione del primo emirato, che rimase allo stato di bozza per l’opposizione dell’ala oltranzista, per la quale l’unica Costituzione era la sharī‘a.

Per il momento la scelta di distinguere un capo politico e un leader religioso ricorda da vicino il meccanismo adottato in Iran dopo la rivoluzione del 1978-79. Il che insegna almeno due cose: da un lato, che l’Islam politico, nel suo tentativo di creare uno Stato islamico, finisce per relativizzare la distinzione sunniti-sciiti; e dall’altro, che può benissimo esistere una teocrazia anche in assenza di un clero formale. Semplicemente, esso è sostituito – e il guadagno è tutto da dimostrare – da un “clero diffuso”, fatto di studenti di scienze religiose (appunto, i taliban) auto-investitisi del compito di comandare il bene e proibire il male.

La fine di un ciclo

E l’inclusività, l’altro mantra di questi giorni? Forse è più utile ricomprenderla in un’altra categoria, quella di efficacia dell’azione di governo. Le compagini politiche premoderne avevano un livello di incisività incomparabilmente inferiore allo Stato moderno (per non parlare di quello tecnocratico post-moderno). Leggi qualsiasi cronaca medievale e l’impressione è che il potere del governante – califfo, imperatore, emiro o duca che fosse – si spingesse poco oltre la sua corte e riposasse su un delicato equilibrio di poteri locali. Finora, i tentativi di costruire in Afghanistan uno Stato forte e centralizzato sono falliti. La repentina resa dell’esercito, certamente favorita da alcune defezioni eccellenti, e il rapido riallineamento della scena politica mostrano che i tradizionali canali di lealtà (e i mezzi per acquistarla, essenzialmente soldi e parentela, la seconda modificabile in funzione dei primi) sono tuttora ben presenti. Anche i talebani dovranno fare i conti con questa realtà e i metodi brutali di cui hanno dato ampia prova non sono di per sé garanzia di stabilità.

Com’è ovvio, la natura del regime politico e l’efficacia della sua azione sono temi che riguardano in primo luogo gli afghani. Indirettamente però investono i musulmani di tutto il mondo, riproponendo, come ha scritto efficacemente l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid, le tre questioni di fondo che l’ascesa dei talebani non ha spostato di una virgola: «recuperare la serenità di cuore (sakīna) nella religione, rinnovare l’esperienza dello Stato nazione, e istituire un rapporto pacifico con il resto del mondo».

Naturalmente la risposta a queste domande non sarà presa in astratto, ma tenendo conto dei condizionamenti del contesto geopolitico. Prendiamo ad esempio la Cina, confinante, seppure per un tratto limitato, con l’Afghanistan. Fino a poco tempo fa i talebani incarnavano per Pechino i Tre Mali, terrorismo, separatismo e fondamentalismo religioso. Ora è evidente che il bivio talebano designa anche per la Cina due scenari radicalmente diversi. Da un lato, un emirato afghano territorialmente delimitato non rappresenta un grosso problema per Pechino, abituata a impostare i rapporti bilaterali in termini economici. Questa possibilità d’intesa, basata su una logica transazionale e pragmatica, viene però a cadere con i movimenti jihadisti a tendenza universale.

Per quanto riguarda l’Occidente – o meglio gli Stati Uniti – la vicenda afghana segna la fine di un ciclo storico. Quello della guerra al terrorismo. Lanciata da George Bush jr. dopo gli attacchi dell’11 settembre, questa ideologia aveva condotto all’invasione dell’Afghanistan, decretando la fine del primo esperimento di governo talebano. Vi aveva fatto seguito nel 2003 l’invasione dell’Iraq, completamente infondata sia sul piano del diritto internazionale che su quello del calcolo politico. Venti anni dopo siamo punto a capo. Ne esce sconfitta la pretesa di esportare la democrazia con le armi e la presunzione di poter rigenerare interi paesi attraverso opere di ingegneria sociale.

Tuttavia, le centinaia di migliaia di esuli che hanno cercato di abbandonare il paese (non solo collaboratori della Nato) mostrano che molti afghani non si fanno illusioni sulla capacità dei talebani di governare. È da lì che bisogna ripartire, per arrivare, con più coraggio e meno arroganza, con la pazienza imposta dai cambiamenti sociali di lungo periodo, a porre la questione al livello che veramente merita: quello della libertà di coscienza. In questo momento il miraggio più lontano, tanto che sembra una follia anche il semplice evocarla, ma nei fatti l’unica possibilità di creare un’alternativa durevole e convincente all’ideologia del sultanato e alla mitologia dell’imamato. Tutto il resto sono palliativi.

* Direttore scientifico della Fondazione Internazionale Oasis e professore associato di lingua e letteratura araba presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano 

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