Chiesa Cattolica – Italiana

La fraternità durante l’orrore: la parrocchia di Roma che salvò quindici bimbe ebree

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Disegnavano le bambine ebree, disegnavano tutto il tempo in cui erano costrette a rifugiarsi in un cunicolo stretto e buio sotto il campanile di Santa Maria ai Monti per distrarsi dallo strepitio degli stivali dei soldati sui sampietrini, durante l’orribile ottobre del 1943. Un lungo sabato nero che trasformò Roma in una selva in cui i predatori tedeschi strappavano dalle case vittime innocenti. Disegnavano soprattutto volti, le bambine: quelli delle mamme e dei papà per non far sì che il terrore o il tempo ne offuscassero il ricordo, quelli delle bambole perse nella fuga, il volto della regina Esther con in mano una kallá, il pane dell’offerta. Scrivevano i loro nomi e cognomi, Matilde, Clelia, Carla, Anna, Aida.

Sui muri disegni, volti, ricordi

Aida, la cui firma rimane ancora impressa sui muri con la sua calligrafia elegante:

““Aida Sermoneta. Dimoro all’ombra di queste volte””

Volte sulle quali sono visibili, seppur sbiaditi dall’umidità, pesci e frasi in ebraico, dediche a “Roma santa e popolare”. Forse con l’attrito del carboncino sulle pareti, le piccole volevano coprire urla, spari, porte sbattute.

Le scritte e i disegni sui muri delle bambine ebree

Rifugiate in convento 

Erano quindici, la più piccola aveva 4 anni. Si salvarono nascondendosi in uno spazio lungo sei metri e largo due nel punto più alto di questa chiesa cinquecentesca nel cuore dell’antica Suburra, a pochi passi dal Colosseo. Vi trascorrevano ore angoscianti che a volte si trasformavano in giorni. Tra mura e arcate si muovevano come ombre per sfuggire a soldati e delatori. Aiutate dalle suore “cappellone” e dall’allora parroco, don Guido Ciuffa, scamparono a rastrellamenti e morte certa nell’abisso dei lager che inghiottirono la vita dei familiari. Gli stessi che ebbero l’animo di affidarle alle Figlie della Carità nell’allora Convento delle Neofite. Mescolate a studentesse e novizie, alla prima avvisaglia di pericolo, venivano condotte in parrocchia attraverso una porta comunicante.

Cosa non deve più succedere

Quella porta oggi è un muro di cemento nel salone del catechismo. “Ai bambini spiego sempre cos’è successo qui e soprattutto cosa non deve più succedere”, dice a Vatican News don Francesco Pesce, da dodici anni parroco di Santa Maria ai Monti, apprezzato in tutto il rione, emblema di una Roma capace ancora di far dialogare etnie e religioni. “Questa porta è simbolica, è un passaggio dalla disperazione alla speranza, dal male al bene”.

Da lì le bambine correvano in sagrestia verso un’altra porta, camuffata da don Guido con arazzi, paramenti, manti della Madonna. Era il punto di snodo per dirigersi sopra l’abside, a 30 metri da terra. Più su, solo le campane. O il cielo, unica via di fuga.

Una immagine della parrocchia del 1943

La scala verso la salvezza

Don Francesco fa da Caronte in questo fiume di memorie e conduce nel percorso in salita, illuminato da una torcia. Novantacinque gradini di una scala a chiocciola buia. Una spirale angosciante. Nei momenti di pericolo, tuttavia, unica via per la salvezza. La terra scricchiola per le carcasse di piccioni morti, il fiato si accorcia e la vista si abitua al buio solo dopo alcuni minuti, quando finestrelle larghe quanto un mattone lasciano entrare spiragli di luce. Le bambine percorrevano su e giù il torrione, da sole, a turno, per recuperare cibo e vestiti e portarlo alle compagne, che aspettavano sul cupolone di cemento che ricopre l’abside. Lo stesso usato come attrazione nei rari momenti di gioco, quando i canti della Messa coprivano i rumori.

Una storia di fraternità tra le righe di una “pagina nera” 

Un altro corridoio, invisibile a prima vista, compare girando l’angolo. Porta all’unica stanza illuminata, la sala da pranzo, in realtà un ripostiglio con accrocchi di legno, un tempo tavoli e sedie. Le bambine consumavano il cibo procurato dalle suore, dal parroco ma anche dagli abitanti del quartiere. Sì, perché la storia di Santa Maria ai Monti non è solo la storia di una Chiesa impegnata a fare resistenza alla furia dei nazisti, ma è una storia di fraternità scritta tra le righe di quella che Papa Francesco ha definito la “pagina più nera” dell’umanità. “Qui abbiamo toccato l’altezza del dolore ma anche l’altezza dell’amore”, dice il parroco. “Un intero rione si è dato da fare e non soltanto i cristiani cattolici, ma anche i fratelli di altre religioni che mantennero il silenzio e proseguirono nell’opera di carità. In questo vedo in questo un anticipo della Fratelli tutti”.

La sala in cui le bambine nascoste consumavano i pasti

Silenzio e carità

Tutti a Monti sapevano che quindici ebree erano nascoste in parrocchia, tutti fecero loro scudo. Non cedettero a minacce o a promesse di ricompense bagnate di sangue, non vollero condividere tra loro neppure le informazioni necessarie per organizzare gli aiuti. Troppo rischioso con i soldati che marciavano nella vicina Via Baccina; troppo pericoloso con delatori e spie che si infiltravano alle Messe per origliare e osservare e poi vendere la vita altrui. Le bambine dovevano solo sparire.

Si salvarono tutte. Da adulte, divenute madri, mogli, nonne, hanno continuato a visitare la parrocchia. Una fino a pochi anni fa, arrampicandosi su al rifugio finché le gambe gliel’hanno consentito. Da anziana si fermava davanti alla porta della sagrestia in ginocchio e piangeva. Proprio come 80 anni fa.

Un crocifisso appeso sul muro del cunicolo che dava riparo alle piccole bimbe ebree
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