La Basilica di San Marco, dove abitò l’Apostolo Evangelista

Vatican News

Maria Milvia Morciano- Città del Vaticano

Proprio dietro Palazzo Venezia, si aprono le arcate della basilica di San Marco Evangelista al Campidoglio, ombreggiata dalla torre e dagli alberi della piazza. Il chiarore del travertino spicca sul complesso di colore bruno e facciamo fatica a immaginare un paesaggio urbano in origine completamemte  diverso, con l’area circostante  affollata di costruzioni, strade e vicoli stretti. La chiesa  aveva di lato il Palazzetto,  ricostruito in posizione arretrata, nel 1909, per fare posto all’Altare della Patria che ora si innalza maestoso proprio di fronte.  

La basilica più antica

Secondo la tradizione, qui avrebbe scritto il Vangelo e abitato intorno al 41 d.C. l’evangelista Marco. Le ricerche archeologiche hanno rintracciato resti di domus, abitazioni romane, dove si stratificarono chiese successive, come un palinsesto di fede e di storia nel nome dell’Apostolo.

Si tratta della basilica più antica che è possibile datare con precisione: è l’anno 336 quando papa Marco I, subito dopo la fine delle persecuzioni contro i cristiani, hic fecit basilicam iuxta Pallacinas, “fece la basilica presso Pallacinas” (Liber Pontificalis XXV).

Pallacinas era il nome di un distretto percorso da un vicus, una strada,  dove nel I sec. a.C. sorgevano dei balneas,  dei bagni, fosco teatro dell’uccisione di  Sesto Roscio, come racconta Cicerone in un’orazione (pro Roscio Amerino 18).

La documentazione storica

Questo toponimo perdura nel tempo; lo ritroviamo in alcune iscrizioni, una delle quali rinvenuta nel cimitero di Priscilla, databile al 348, dove si ricorda Venantius lector, un giovane lettore di nome Venanzio, attestando  la chiesa come titolo presbiteriale. Ritroviamo il  titulus Marci, il titolo di Marco, di nuovo nel sinodo del 499 di papa Simmaco e ancora in quello del 595 di papa Gregorio Magno. Il titulus è ricordato tra i primi venticinque nella lista del VI secolo, il Liber Pontificalis. È eccezionale non solo la datazione precisa della fondazione della chiesa, ma anche la coincidenza del nome del santo apostolo con quello del fondatore.  

Dopo le devastazioni degli invasori

Nel 729 la chiesa subì dei restauri, dopo le devastazioni dei goti dei longobardi e dei bizantini e provocate dalle alluvioni del Tevere, ad opera di papa Adriano I, mentre fu resa necessaria una demolizione di parti diventate instabili e una ricostruzione  sotto papa Gregorio IV nell’833, che fece decorare l’abside con mosaici. Al centro Cristo è in piedi su una pedana con l’alfa e l’omega. Nel libro che tiene in mano si legge la parafrasi dal Vangelo di Giovanni (8,12): Ego sum lux, ego sum vita, ego sum resurrectio, “io sono la luce, io sono la vita, io sono la resurrezione”.  Ai lati si dispongono santi, sempre contrassegnati dal loro nome su una base e il committente, papa Gregorio IV, con il nimbo quadrato dei viventi e il modellino della chiesa tra le mani, abbracciato da san Marco. 
Nella fascia inferiore l’agnello circondato da sei pecore per lato e l’iscrizione dedicatoria. 

Chiesa nazionale dei veneziani a Roma

Il campanile romanico è stato aggiunto nel 1154, anno nel quale sopra l’altare fu posto il ciborio – opera dei marmorari figli di Paolo Romano, Giovanni, Pietro, Angelo e Sassone – smembrato nel Settecento, e alcuni elementi posti nel presbiterio e all’ingresso. Nel 1415 la chiese divenne parrocchia e affidata al clero diocesano di Roma. La facciata risale agli anni del papa veneziano Paolo II Barbo, tra il 1465 e il 1470, che abitava già da cardinale nel palazzo allora detto di San Marco, poi di Venezia,  che nel 1455 aveva trasformato e ampliato nelle forme che ci sono note. La basilica, racchiusa nel complesso, divenne chiesa nazionale dei veneziani residenti in Roma.

Il prospetto della basilica imita nelle forme la perduta Loggia delle Benedizioni di San Pietro e da qui si affacciava lo stesso Pontefice per impartire le benedizioni. Si tratta di due ordini di arcate in travertino con archi a  tutto sesto, scandite da semicolonne e paraste con capitelli compositi e decorazioni tra gli altri, dello scudo con lo stemma papale e il busto di san Marco. Il materiale per la sua costruzione fu prelevato dal Colosseo e dal vicino teatro di Marcello. Quest’opera è stata prima attribuita dal Vasari a Giuliano da Maiano, poi a Leon Battista Alberti che però non aveva buoni rapporti con il Papa, pertanto oggi si propende a  individuarne la sua influenza piuttosto che un intervento diretto, ascrivibile, invece, a Francesco del Borgo, architetto originario di Sansepolcro molto attivo a Roma alla metà del XV secolo.  

Nell’atrio, il portale d’ingresso è guardato dalle sculture di  due leoni, che prima erano alla base del ciborio, mentre la lunetta sull’architrave è opera di Isaia da Pisa o di Mino da Fiesole del 1464 circa, con san Marco seduto su un ricchissimo trono e il leone accucciato di lato. 

Sempre nell’atrio, tra iscrizioni e frammenti architettonici, la vera di pozzo risalente all’XI secolo, con l’iscrizione del presbitero Giovanni che nel nome di Dio e di san Marco  metteva a disposizione degli assettati l’acqua ma concludeva “sia anatema per quanti ne avessero tratto profitto pecuniario”: 

De donis Dei et sancti Marci, Iohannes presbiter fieri robagit. Omnes sitientes, venite ad aquas et si quis de ista aqua pretio tulerit anathema sit

I numerosi stili artistici

Scesi alcuni scalini ed entrati nella basilica, l’architettura esterna dell’armonioso e composto stile rinascimentale romano si frange con lo stupore di un barocco multicolore, dove il chiaroscuro è netto, sensoriale, dove le opere fondono stili diversi, con un risultato fastoso. Infatti tra i secoli XVII e XVIII l’interno ebbe dei consistenti restauri voluti dal cardinale Angelo Maria Quirini.  

Le colonne più antiche si addossano a pilastri dividendo lo spazio in tre navate. Ogni genere artistico è presente: mosaico, pittura, scultura. Periodi, stili e storie diverse, tutti per celebrare la tensione della vita dell’Apostolo, la sua grandezza. Il simbolo del leone, che contraddistingue l’Evangelista e poi Venezia ricorre sul soffitto, negli stemmi e nelle decorazioni. 

Gli artisti

Committente di importanti opere all’interno della chiesa fu Nicolò Sagredo, ambasciatore della Serenissima in Roma, sia dal 1651 al 1656 che dal 1660 al 1661.
A questo periodi si devono i dipinti degli allievi di Pietro da Cortona – Lazzaro Baldi, Ciro Ferti e Guglielmo Cortese detto  il Borgognone – sono quadri sul sommo degli archi della navata centrale,  affollati con scene raccontate come storia vera, ripieni di emozioni vissute. Sono le storie dei martiri Abdon e Sennen, le cui spoglie mortali riposano insieme a quelle di san Marco papa nell’urna sotto l’altare, opera probabile di Filippo Barigioni.

Antonio Canova è autore del monumento funerario (1796-97) di Leonardo Pesaro, morto in giovane età. Il suo profilo risplende di giovinezza ma il profilo è già delineato come sarebbero diventato in età matura e che non fu.  

Si sente come uno spirito ansioso di cantare grandezza, pur in una chiesa che rimane raccolta e familiare. Non suggerisce vertigine di spazi talmente grandi da produrre eco a ogni passo. Si rimane incantati nella luce o nella penombra ad ascoltare musiche sacre che si spandono nell’aria e si cammina piano con delicatezza sugli splendidi pavimenti cosmateschi e seicenteschi per non fare rumore, con la consapevolezza di calpestare una storia stratificata dal  tempo e dalla materia delle costruzioni successive, ma viva e trasmutata nella spiritualità che qui si respira, sempre.