In Sudan prosegue la protesta popolare contro la giunta militare

Vatican News

Giancarlo La Vella – Città del Vaticano

Dal golpe militare del 21 novembre scorso il Sudan non sembra trovare pace. Le manifestazioni popolari si susseguono praticamente ogni giorno, con le proteste che hanno preso di mira la giunta militare al potere. La situazione non si è calmata neanche con il reinsediamento del premier Abdallah Handok, che era stato deposto con il colpo di Stato. Il governo sta utilizzando il pugno duro contro i dimostranti. Uno di loro è morto ieri proprio nel corso di una manifestazione pro democrazia, che ha visto scendere in piazza a Khartoum centinaia di migliaia di persone. Si tratta di un uomo di 38 anni, che sarebbe stato colpito al petto da un proiettile. Oltre alla vittima, il ministero della Sanità ha comunicato che altre 125 persone sono rimaste ferite. In totale, dall’inizio delle proteste almeno 46 persone sono state uccise.

I sudanesi vogliono la democrazia

Nell’intervista a Radio Vaticana-Vatican News, il missionario comboniano, padre Filippo Ivardi, ricorda che la manifestazione di ieri è avvenuta in occasione del secondo anniversario della deposizione dell’ex uomo forte del Sudan, Omar al Bashir. Dopo quell’evento si aprì la strada ad un sistema di governo condiviso tra militari e civili. 

Ascolta l’intervista a padre Filippo Ivardi

Padre Ivardi, il Sudan non sembra avere pace dopo Il golpe militare. La crisi, nella quale continuano le manifestazioni popolari, può essere secondo lei ricondotta sulla strada del dialogo?

Sicuramente è una fase delicatissima della storia del Paese. Ormai la popolazione è determinata a rifiutare ogni accordo con i militari e anche ha rifiutato completamente il reinsediamento del premier Abdallah Handok, avvenuto lo scorso 21 novembre. Ormai non credo ci siano più le condizioni davvero per tornare ad un dialogo, ma la decisione popolare di portare avanti le manifestazioni, senza nessun tipo di negoziazione, partenariato o compromesso, a questo punto credo che andrà fino in fondo e costringerà nei mesi a venire i militari a cedere.

Di fronte all’Unione africana, ma anche al resto della comunità internazionale che guarda con attenzione a quanto sta avvenendo in Sudan, perché la giunta militare non apre un dialogo almeno a livello diplomatico?

La comunità internazionale, dopo aver condannato fermamente Il golpe del 25 ottobre, ha timidamente appoggiato il reinsediamento del premier Handok, come unica possibile strada per tenere il Paese in sesto. Però ormai si sta rendendo conto che i militari mantengono le redini del Paese e non sembrano voler cedere su le riforme, come la riforma dell’esercito, ma anche la gestione dell’economia o il fare verità sui massacri del giugno 2019. Ecco, si sta facendo strada l’idea che la giunta non abbia la minima intenzione di portare avanti dei cambiamenti che ormai sono necessari e sono urgenti per il Sudan, anche proprio per l’economia di un Paese che è al collasso.

Padre Ivardi, si rischia di tornare a un Sudan isolato nel contesto internazionale?

No, questo direi di no, perché c’è questo tentativo di timido appoggio da parte della comunità internazionale al reinsediamento del premier e poi c’è da considerare l’atteggiamento delle potenze arabe, come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, che continuano ad appoggiare il presidente sovrano Abdel Fattah al-Burhan. Se gli stati più occidentali in qualche modo si mantengono un po’ freddi nei confronti di questo tentativo di tenere insieme la parte civile e la parte militare, c’è invece il forte sostegno di diversi Paesi arabi.

In situazioni del genere, la crisi colpisce sempre la popolazione civile. Qual è la condizione dei sudanesi?

La situazione a livello economico è davvero allarmante, le condizioni di vita per tutta la popolazione sono molto difficili. In alcune aree del Paese è diventato difficile addirittura potersi alimentare in modo sufficiente. L’inflazione è alle stelle. Per la gente è anche diventato complicato l’accesso ai beni di base; la benzina è carissima e poi abbiamo conflitti enormi in alcune aree del Paese. Nella parte orientale, nella zona di Port Sudan, e soprattutto nelle ultime settimane in quel Darfur che è diventato ormai incontrollabile, dove abbiamo continui scontri tra gruppi armati, tra gruppi di allevatori per il controllo della terra, ma anche per il controllo dei minerali, in primis l’oro. Ecco, quindi la situazione a livello sociale è davvero esplosiva, in più queste continue manifestazioni non si arrestano.  Nuove proteste sono state indette anche per il 25 e 30 dicembre prossimo e si tratta di dimostrazioni sempre più massive.

L’attuale situazione del Sudan ha messo in qualche modo in crisi i rapporti con il Sud Sudan, con il quale costituiva uno Stato unico fino a pochi anni fa?

Non più di tanto, anche perché in qualche modo Khartoum sta cercando con Juba di creare un baluardo nei confronti dell’Etiopia per la grande questione della diga sul Nilo azzurro, quindi non ci sono delle ripercussioni per quanto riguarda la stabilità del Paese nei confronti anche dell’ex territorio comune, ma che oggi costituisce il Sud Sudan.