Chiesa Cattolica – Italiana

In ascolto di Gesù fra i nativi dello Yukon, dove la fede scioglie il ghiaccio

Debora Donnini – Città del Vaticano

E’ della scorsa settimana la notizia della disponibilità del Papa a recarsi in Canada su invito dell’episcopato locale, impegnato nel processo di riconciliazione con i nativi. Le date della visita ancora non si conoscono, ma è noto lo scenario drammatico venuto alla luce mesi fa che ha indotto lo stesso Francesco a toni di profondo sgomento uniti al bisogno di intraprendere un cammino di guarigione.
 

Era il 6 giugno scorso quando Francesco dopo l’Angelus espresse dolore per le notizie che arrivavano dal Canada circa la sconvolgente scoperta dei resti di duecentoquindici bambini, alunni della Kamloops Indian Residential School, nella Provincia della Columbia Britannica. Un addolorato mea culpa è stato espresso in settembre dai vescovi cattolici del Canada che, riuniti in plenaria, avevano presentato, tramite una nota, scuse formali alle popolazioni indigene dopo il ritrovamento, l’estate scorsa, di oltre mille tombe anonime con resti di bambini autoctoni nei pressi delle scuole residenziali, che furono istituite intorno alla fine dell’800 dal governo canadese e affidate alle Chiese cristiane locali, tra cui quella cattolica.

Si stima che, a partire dal 1883 fino agli anni ‘60 del secolo scorso, circa 150 mila bambini delle Prime Nazioni, Métis e Inuit, erano stati obbligati a frequentare una di queste 139 scuole distribuite in tutto il Paese, rompendo il legame con le loro famiglie, con la loro lingua e cultura. Nel 2015 la Commissione per la verità e la riconciliazione del Canada ha diffuso un rapporto da cui sono emersi nel dettaglio i maltrattamenti e le condizioni di disagio e malnutrizione a cui furono costretti questi minori, causate spesso anche dai mancati finanziamenti da parte del governo. A causa di malattie, fame, freddo, almeno 4 mila di questi bambini e adolescenti trovarono la morte lungo circa 80 anni.

Proprio fra i nativi del Canada, precisamente nella provincia dello Yukon, è vissuto per circa un anno – fra il 2020 e il 2021 – don Francesco Voltaggio. Nel vasto territorio di questa provincia del nordovest canadese vivono circa 35 mila persone, la maggior parte nella città Whitehorse e circa 5 mila sparse nei piccoli villaggi. Nato e cresciuto a Roma, Francesco Voltaggio è stato inviato nel Paese nordamericano come seminarista nel 2013 e ordinato sacerdote nel 2017, incardinato nell’arcidicoesi di Vancouver. 

Ascolta l’intervista a don Francesco Voltaggio:

Quale è la sua esperienza nel processo di riconciliazione?

Non posso parlare di riconciliazione senza testimoniare che è proprio attraverso di essa, che io sono qui oggi. Sono stato ordinato diacono nell’Anno della misericordia. Sono sicuro che è per pura misericordia che sono qui oggi! Dico questo perché il desiderio più grande che il Signore suscita, nel mio presbiterato, è proprio di annunciare agli altri la misericordia di Dio, la riconciliazione, il suo amore. Quello che mi ha portato oggi a parlare è proprio questo: che mi ha aperto la bocca quando ero muto, che mi ha dato di vedere la bellezza della vita quando a volte ho pensato che essa non avesse alcun senso, che mi ha dato la forza di rialzarmi quando ero schiacciato da tanti peccati, da situazioni di morte esistenziale dove non riuscivo ad andare avanti. Il Signore si è avvicinato a me e mi ha attratto a Lui perché è l’unico che mi ha amato quando io non amavo me stesso, né gli altri, e lo ha fatto attraverso persone concrete, famiglie, sacerdoti, che mi hanno annunziato un amore gratuito, che non aveva un “ma” o un “però”. Papa Francesco ha sempre insistito sulla Chiesa con questa immagine dell’ospedale da campo, e ha sempre parlato ai noi sacerdoti incoraggiandoci a essere testimoni della misericordia di Dio.

Mi è capitato alcune volte di essere fermato per strada, sia in Italia che in Canada, perché alcune persone avevano il bisogno di fare domande, di parlare con qualcuno di situazioni umanamente insopportabili, di trovare una risposta alle loro sofferenze. Un giorno che non dimenticherò mai è quando per le strade di Vancouver ho fermato una ragazza con gli occhi gonfi di lacrime per chiederle se avesse bisogno di aiuto e da lì, da questa frase così semplice, il Signore è poi entrato piano piano nella sua vita quando stava anche contemplando il suicidio, e così l’ha salvata.

Voglio anche ricordare un’affermazione di Benedetto XVI, ripresa da Papa Francesco, quando dice che “la Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrazione, per testimonianza”. Quindi, le persone devono essere attratte dalla testimonianza.  

Don Francesco Voltaggio nello Yukon

Quale è stata la sua missione fra quelle popolazioni?

L’anno scorso, il 21 maggio, giorno del mio compleanno, ho ricevuto un grande dono dal Signore. A Vancouver, giocando a calcio con delle famiglie e dei bambini della parrocchia, mi sono rotto il tendine d’Achille. A causa di tutto ciò, invece di recarmi in Asia per un tempo di missione, sono stato fermo per cercare di guarire e da lì è nato il desiderio, mentre ero ancora sofferente, di andare ad aiutare il vescovo di Whitehorse nella bellissima e freddissima provincia dello Yukon. Col permesso del mio arcivescovo sono partito e da lì il Signore ha veramente operato meraviglie. Il primo mese ho accompagnato il vescovo di Whitehorse, Héctor Vila, che mi ha aiutato a comprendere la storia, i luoghi e le ferite presenti in quei luoghi. Con lui ho fatto la bellissima esperienza di andare a visitare le carceri, di condividere con i detenuti l’amore di Dio, ho incontrato anche alcuni nativi – lì si chiamano First Nations – che ci parlavano delle sofferenze e delle difficoltà della loro vita.

Poi ho sentito un desiderio forte di andare ancora più a Nord. Ricevuto il permesso, sono partito per i villaggi a maggioranza nativi con una macchina con le ruote chiodate, taniche di benzina per coprire le lunghe distanze, e qualche attrezzatura nel caso l’auto si fosse fermata nelle centinaia di chilometri di strade ghiacciate che dovevo percorrere. Era molto più comune incontrare un alce, un cervo, una lince o un lupo che veder passare una macchina, specialmente in inverno quando le temperature vanno dai -30 ai -50 gradi!

Ho vissuto in tre villaggi di circa 300 persone ognuno e distanziati di 200 chilometri uno dall’altro. Poco a poco ho iniziato a conoscere i nativi e tante altre persone che abitavano lì. Andavo a scuola per imparare a intagliare il legno per cercare di conoscere le persone, ascoltare e rispondere alle loro curiose domande perché vedevano un italiano di Roma e si chiedevano cosa facessi lì. Ho potuto conoscere e ascoltare alcune persone fra i nativi che avevano affrontato anche l’esperienza delle scuole residenziali – “residential school” – e ho capito come fosse stato traumatico da bambini essere strappati dalle loro case.

Come si svolgeva la sua vita lì dove la realtà è molto diversa da Roma, città dove lei è nato e cresciuto?

È stata un’esperienza veramente diversa passare da grandi città come Roma o Vancouver, da una vita moderna, a questi posti stupendi ma molto freddi. Andare a – 0, 40 o 50 gradi ha significato adattarsi, imparare a fare la legna per il fuoco, a pulire la neve costantemente dal tetto della chiesa di legno, pulire le strade dal ghiaccio… E poi una cosa a cui non siamo abituati nelle città moderne è anche la solitudine, perché tante volte ero da solo, viaggiavo da solo. Ho cercato, pian piano, di farmi conoscere. Definisco la mia missione in modo molto semplice: di stare da solo con Cristo e allo stesso tempo dell’ascolto, cioè di ascoltare gli altri, di ascoltare le esperienze, di ascoltare le persone che venivano ma non solo in chiesa ma proprio di andare ad ascoltare. Poco a poco, ho avuto esperienze che mai avrei pensato di avere nella mia vita: i nativi mi hanno portato a pescare nel ghiaccio, a attraversare i fiumi ghiacciati con la macchina per andare a trovare una persona in un posto sperduto. Il Signore mi ha proprio disinstallato dal mio modo di vivere la vita, aprendomi all’altro. E nella maniera in cui ti apri all’altro, ti apri anche a Cristo.

Lei è andato a portare il Vangelo, la misericordia. Quali esperienze ha vissuto in questo senso?

Un dono enorme che porto nel cuore è che un giorno una signora anziana è venuta da me e mi ha detto chiesto di fare una catechesi nella chiesa. Ho invitato le persone che avevo conosciuto, tra cui anche per esempio una coppia dove il marito era stato il capo del villaggio e altre persone. Con mio grande stupore, quella notte mi sono trovato di fronte circa 18 persone e ho raccontato la mia esperienza, quello che Dio ha operato nella mia vita, come io ho conosciuto Dio, e anche ho parlato del Vangelo e la cosa che mi ha stupito è stato che loro hanno, poi, raccontato la loro esperienza, le loro sofferenze, i problemi che hanno anche nella loro vita, i problemi familiari, anche problemi di alcol o droga. Si sono aperti e mi ha colpito come parlare di Cristo, della Verità che ama e che non forza, apre anche l’altro all’incontro con Dio. Poco a poco molti di loro sono venuti a questi incontri e  il Signore ha operato con tenerezza nelle loro vite, ma ancor di più – forse non se ne sono resi conto – nella mia vita nel vedere che Cristo ha veramente il potere di aiutare l’uomo, che Cristo si mette a servizio. Queste catechesi sono andate avanti e da queste catechesi è nata una comunità che ancora oggi si riunisce. Sono stati anche generosissimi: c’erano alcuni che venivano il giorno prima per accendere il fuoco nella chiesa così che il giorno dopo potesse essere calda. Alcuni hanno portato delle specie di camper dove le famiglie che mi aiutavano nelle catechesi potessero stare per dormire e non fare un viaggio lungo nel freddo. Hanno avuto un’accortezza enorme, perché si sono sentiti amati.

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