Il Papa: la confessione non è un tribunale umano, ma abbraccio divino che consola

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Nella celebrazione penitenziale nella chiesa romana di Santa Maria al Trionfale, con la quale ha aperto l’iniziativa quaresimale di preghiera e riconciliazione “24 ore per il Signore”, Francesco ha ricordato che l’incontro con Dio attraverso un confessore “è una festa che guarisce il cuore e lascia la pace dentro” e ha proposto un esame di coscienza per i peccati “contro la vita, la cattiva testimonianza e contro il creato”

Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano

Un invito ad incontrare il Signore e la sua misericordia, nel sacramento della Confessione, come il pubblicano della parabola di Gesù, che prega Dio restando in fondo al tempio, lasciandogli spazio, chiedendo pietà come peccatore, e non come il fariseo, in piedi in prima fila, che celebra sé stesso mascherando le sue fragilità e non lasciandogli spazio perché troppo ricco di sé. Papa Francesco lo rivolge a tutti nell’omelia della Celebrazione penitenziale che presiede nella chiesa romana di Santa Maria delle Grazie al Trionfale, nel pomeriggio in cui si apre la “24 ore per il Signore”.

Dio ci aspetta sempre per toccare le nostre ferite

Tra i fedeli della parrocchia che è a duecento metri dalle Mura vaticane, scelta per la sua seconda partecipazione all’iniziativa quaresimale di preghiera e riconciliazione da lui voluta, dopo quella nella Basilica Vaticana nel 2022, il Papa ricorda che Dio ci aspetta sempre, per toccare le nostre ferite e accogliere i nostri fallimenti. Specialmente nel sacramento della Riconciliazione, “un incontro di festa, che guarisce il cuore e lascia la pace dentro; non un tribunale umano di cui aver paura, ma un abbraccio divino da cui essere consolati”.

La preghiera del povero attraversa le nubi

Francesco inizia l’omelia con le parole dell’apostolo Paolo nella Lettera ai Filippesi, ascoltate nella prima lettura, che spiega di aver lasciato perdere le cose che per lui “erano guadagni”, considerandole “spazzatura”, per “guadagnare Cristo”. Si tratta delle sue “ricchezze religiose”, spiega il Pontefice, da fariseo ligio e osservante, che potevano “costituire un merito” ma in realtà erano “un impedimento”. Chi è troppo ricco di sé e della propria “bravura” religiosa, spiega il Pontefice, “presume di essere giusto e migliore degli altri” si sente a posto, “ma così non può fare posto a Dio perché non sente bisogno di Lui”. Il posto di Dio l’ha occupato con il suo “io” e allora, “anche se recita preghiere e compie azioni sacre, non dialoga veramente con il Signore”.

Perciò la Scrittura ricorda che solo «la preghiera del povero attraversa le nubi» perché solo chi è povero in spirito, bisognoso di salvezza e mendicante di grazia, si presenta davanti a Dio senza esibire meriti, senza pretese, senza presunzione: non ha nulla e perciò trova tutto, perché trova il Signore.

Il fariseo prega celebrando se stesso

E’ l’insegnamento che Gesù ci offre nella parabola, nel Vangelo di Luca, del fariseo e del pubblicano, che pregano nel tempio, sottolinea Papa Francesco, “ma uno solo arriva al cuore di Dio”. Per loro parla già l’“atteggiamento fisico” descritto dall’evangelista: il fariseo pregava “stando in piedi”, mentre il pubblicano, “fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”. Il fariseo, spiega il Papa, “è sicuro di sé, ritto e trionfante come uno che debba essere ammirato per la sua bravura”. Così prega Dio, ma in realtà “celebra sé stesso: io frequento il tempio, io osservo i precetti, io offro l’elemosina…”

Formalmente la sua preghiera è ineccepibile, esteriormente si vede un uomo pio e devoto, ma, invece che aprirsi a Dio portandogli la verità del cuore, maschera nell’ipocrisia le sue fragilità. Non attende la salvezza del Signore come un dono, ma quasi la pretende come un premio per i suoi meriti.

Il pubblicano, in fondo, lascia spazio all’arrivo di Dio

Avanza senza esitazione verso l’altare di Dio, aggiunge Francesco, “per occupare il suo posto, in prima fila, ma finisce per andare troppo in là e mettersi davanti a Dio!”. Il pubblicano, invece, sta a distanza, rimane in fondo. Ma proprio quella distanza, spiega il Pontefice, “che manifesta il suo essere peccatore rispetto alla santità di Dio, è ciò che gli permette di fare l’esperienza” dell’abbraccio del Padre, che può raggiungerlo “proprio perché, restando a distanza, quell’uomo gli ha fatto spazio”.

Quanto è vero questo anche per le nostre relazioni familiari, sociali e pure ecclesiali! C’è vero dialogo quando sappiamo custodire uno spazio tra noi e gli altri, uno spazio salutare che permette a ciascuno di respirare senza essere risucchiato o annullato. Allora quel dialogo, quell’incontro può accorciare la distanza e creare vicinanza.

E’ quello che succede anche nella nostra vita, chiarisce Papa Francesco:

il Signore viene a noi quando prendiamo le distanze dal nostro io presuntuoso. Egli può accorciare le distanze con noi quando con onestà, senza infingimenti, gli portiamo la nostra fragilità. Ci tende la mano per rialzarci quando sappiamo “toccare il fondo” e ci rimettiamo a Lui nella sincerità del cuore.

Quando ci confessiamo, ci mettiamo in fondo

Dio ci aspetta in fondo, perché in Gesù Lui ha voluto “andare in fondo”, occupare “l’ultimo posto, facendosi servo di tutti”. Ci aspetta lì, ribadisce il Papa, “perché non ha paura di scendere fin dentro gli abissi che ci abitano, di toccare le ferite della nostra carne, di accogliere la nostra povertà, i fallimenti della vita”. Dio ci aspetta “specialmente nel sacramento della Confessione”. E Francesco invita allora a fare tutti “un esame di coscienza, perché il fariseo e il pubblicano abitano entrambi dentro di noi”.

Non nascondiamoci dietro l’ipocrisia delle apparenze, ma affidiamo con fiducia alla misericordia del Signore le nostre opacità, i nostri errori, le nostre miserie. Quando ci confessiamo, ci mettiamo in fondo, come il pubblicano, per riconoscere anche noi la distanza che ci separa tra ciò che Dio ha sognato per la nostra vita e ciò che realmente siamo ogni giorno.

E, in quel momento, sottolinea il Pontefice “il Signore si fa vicino, accorcia le distanze e ci rimette in piedi” e “mentre ci riconosciamo spogli, Lui ci riveste con l’abito della festa”.

Questo è, e dev’essere, il sacramento della Riconciliazione: un incontro di festa, che guarisce il cuore e lascia la pace dentro; non un tribunale umano di cui aver paura, ma un abbraccio divino da cui essere consolati.

L’esame di coscienza: “abbi pietà di me, peccatore”

L’esame di coscienza che Papa Francesco propone in conclusione è scandito dall’invocazione del pubblicano della parabola di Gesù: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore” che chiede di ripetere a tutta l’assemblea, nella chiesa di Santa Maria delle Grazie al Trionfale.

“Quando mi dimentico di Te o ti trascuro, quando alla tua Parola antepongo le mie parole e quelle del mondo, quando presumo di essere giusto e disprezzo gli altri, quando chiacchiero degli altri, o Dio, abbi pietà di me, peccatore. Quando non mi prendo cura di chi mi sta accanto, quando sono indifferente a chi è povero e sofferente, debole o emarginato, o Dio, abbi pietà di me, peccatore. Per i peccati contro la vita, per la cattiva testimonianza che sporca il bel volto della Madre Chiesa, per i peccati contro il creato, o Dio, abbi pietà di me, peccatore. Per le mie falsità, le mie disonestà, la mia mancanza di trasparenza e legalità, o Dio, abbi pietà di me, peccatore. Per i miei peccati nascosti, per il male che anche senza accorgermi ho procurato ad altri, per il bene che avrei potuto fare e non ho fatto, o Dio, abbi pietà di me, peccatore.”

In questo atto di pentimento e di fiducia, conclude il Papa, “ci apriremo alla gioia del dono più grande: la misericordia di Dio”.