Il Papa: aiutiamo chi scappa per vivere, basta donne vendute come merce

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Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

Dobbiamo aprire i nostri cuori alla vita dei rifugiati, non è una persona che è venuta per turismo in un altro Paese, né qualcuno che è scappato per motivi commerciali, è qualcuno che è scappato per vivere, e rischia la sua vita per vivere.

È la storia di un giovane rifugiato ruandese, fuggito con la sua famiglia dal genocidio del 1994, poi approdato nella Repubblica Democratica del Congo e ora accolto dalla comunità di Scholas Occurrentes, a muovere il cuore del Papa e spingerlo a lanciare una nuova, ennesima, denuncia contro un dramma che si consuma, ancora oggi, sotto gli occhi di tutti. Quello dei rifugiati, vittime di scarto e indifferenza.

Il nostro egoismo ci porta a questa psicologia dell’indifferenza. Beh, sì, va bene, si legge, sono annegati in 110 perché la barca si è rovesciata nel Mediterraneo, un Mediterraneo che sta diventando il più grande cimitero del mondo.

Francesco parla dalla sala congressi del Pontificio Collegio Internazionale Maria Mater Ecclesiae, nella zona Aurelia di Roma. Alla presenza dei direttori mondiali di Scholas, José Marìa del Corral e Enrique Palmeyro, circondato da giovani tra i 16 e i 27 anni di una cinquantina Paesi, seduti a terra a cavalcioni, il Pontefice risponde ad alcune domande. Lo fa dopo aver assistito a canti e testimonianze, e a una particolare rappresentazione teatrale, dove i ragazzi, con maschere bianche con strisce di diversi colori, vogliono simboleggiare “el dolor” (“il dolore”) che affligge la gioventù odierna.

Il pensiero alle donne trattate come merce

Nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Francesco non vuole far mancare un pensiero a tante ragazze, mamme, mogli, sorelle, trattate come merce.

Oggi la vita di un rifugiato è molto dura. Ho studiato e ho visto cosa succede sulle coste libiche con quelli che tornano indietro, con quelli che poi vengono presi dalle mafie che li sfruttano, li torturano, vendono le donne. Voi che siete donne potete immaginare cosa significhi essere vendute come merce, questo succede oggi con ragazze come voi, con giovani madri.

Fratelli e sorelle, non numeri

“I rifugiati che rischiano la loro vita fuggendo, e rischiano la loro vita nel Mediterraneo, nel Mar Egeo, nell’Atlantico sulla strada per le isole Canarie, questi rifugiati hanno una sola ossessione, uscire, uscire, uscire”, riflette ancora Francesco. Che invita a trattare il tema secondo una prospettiva umana: “Quando parliamo di rifugiati, non parliamo di numeri, parliamo dei nostri fratelli e sorelle che sono dovuti fuggire e alcuni di loro non hanno potuto e sono stati catturati in questi campi di concentramento che esistono, e sto parlando della costa libica”.  

Con i trafficanti, gli stessi che li imbarcano e poi li ricevono quando vengono rimandati indietro. È un momento molto difficile, essere un rifugiato è camminare senza un terreno sicuro, camminare senza sapere dove

Non farsi imprigionare

Il Papa rivela di aver recentemente letto un libro chiamato “Hermanito”: “È semplicemente la vita di un ragazzo il cui fratello minore è partito per venire in Europa e lo ha seguito per tutta l’Africa e racconta com’è la vita di un rifugiato. Ho incontrato molti rifugiati che mi raccontano quanto tempo hanno impiegato per arrivare in Europa, anni, due o tre anni, fuggendo e camminando. La vita di un rifugiato è vivere per strada – rimarca il Pontefice -, ma non nella tua strada, non nella strada della tua città, nella strada della vita dove sei ignorato, calpestato, trattato come niente”.

L’invito ai giovani è allora ad “essere grati per la vita” che hanno, per non essere costretti a dover fuggire dalla propria patria. “State attenti – ammonisce tuttavia il Papa – a non essere imprigionati nella stessa patria, imprigionati culturalmente”.

Imparare a fuggire dalle prigioni che ti vengono presentate dalle abitudini sociali già determinate, il socialmente corretto. A volte ti imprigionano con comportamenti che ti rendono inamidato, che ti impediscono di sentire, che ti impediscono di sentire. Un rifugiato fugge perché ha un sentimento, un sentimento di libertà, un sentimento di giustizia, un sentimento.

“Lasci crescere i tuoi sentimenti per poterli discernere più tardi, o li nascondi?”, domanda Francesco ai ragazzi. “Se nascondete i vostri sentimenti, essi esploderanno, ed esploderanno male, nel comportamento sociale che vediamo ogni giorno. Se lasciate uscire i vostri sentimenti, avete l’obbligo di discernerli e di affrontarli, questo vi darà maturità”.

La capacità di incontro 

Sulla stessa scia, in risposta all’esperienza riportata da due ragazze sui giorni vissuti con Scholas (“Non è un’associazione, è una famiglia”), Francesco riflette sul concetto di comunità. Una realtà, dice, che si mantiene viva con “la capacità di incontro”.

Quando perdiamo questa capacità di incontrare l’altro, ci fossilizziamo, cioè l’anima si fossilizza, il cuore si fossilizza, e cadiamo in ciò che è socialmente corretto, che sono gesti inamidati o duri senza originalità. E quando non c’è originalità, è come dissetarsi con acqua distillata, provate, non sa di niente.

Grida d’aiuto

“La creatività – rimarca Francesco – è ciò che ti spinge… La creatività è un rischio, ma una comunità senza creatività è una maschera come questa”, dice indicando la maschera che tiene in mano. “Tutti hanno una divisa non solo sulla faccia, ma anche sul cuore, e dove i sentimenti sono spenti, i moti interiori sono spenti, si fa quello che viene comandato, si fa quello che viene prescritto, si fa quello che tutti fanno socialmente, e si perde la personalità”.

Certo, a volte si reagisce contro qualcuno e qualcosa e si finisce per “andare dall’altra parte” facendo “l’enfant terrible”, ma, sottolinea il Pontefice, è quello un grido di aiuto

Quando si vede un giovane che sta facendo delle birichinate, che va dall’altra parte, è perché in qualche modo sta richiamando l’attenzione (non sempre nel senso cattivo della parola), ma sta chiedendo aiuto a una società che ha una faccia vuota, una faccia bianca, politicamente corretta, tutti uguali, tutti uguali all’esterno, ma dov’è il vostro cuore?

Dai cinque continenti

Ad ascoltare le parole di Papa Francesco sono seduti diversi ragazzi e ragazze provenienti dai cinque continenti e appartenenti a diverse religioni e diversi contesti socioeconomici: i rifugiati come gli studenti di prestigiose università o i giovani che senza una iniziativa del genere sarebbero stati esclusi dal sistema educativo. Fino al 28 novembre condivideranno in presenza le diverse esperienze vissute finora durante la pandemia e gli insegnamenti appresi nelle loro comunità. Cinquanta di questi giovani inizieranno un anno di formazione umana e politica ispirata all’enciclica Fratelli tutti con l’obiettivo di creare una risposta che sia al passo con i tempi e inclusiva delle periferie geografiche e sociali.  

Il ministro Bianchi: costruire scuole di affetti

All’incontro interviene anche una suora – “È la minaccia che Scholas è entrato nei conventi”, scherza il Papa – che racconta la sua esperienza con la fondazione che “conferma il mio modo di essere insegnante”. Poi dà il suo saluto il ministro italiano dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, che un po’ in italiano e un po’ in spagnolo, anche lui tenendo in mano una maschera bianca, ringrazia Francesco per “condividere questo giorno di felicità con noi”. Soprattutto il giorno di oggi, dedicato al contrasto della violenza contro le donne: “È doppiamente importante”, afferma. “Possiamo costruire una comunità di fratelli e sorelle”, dice il ministro, parlando del progetto con alcune insegnanti di Palermo e Reggio Calabria di costruire “una rete di scuole di senso che vogliamo allargare a tutti”. “Quale senso? Il senso della affettività. Se costruiamo una scuola di affetti, possiamo costruire la comunità, vincere la pandemia, costruire i modi per vivere insieme”.