Chiesa Cattolica – Italiana

Il lavoro dell’Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo in Afghanistan

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Ancora negli occhi e nel cuore i ricordi delle inaugurazioni dei progetti stradali, anche ad altitudini molto elevate, le immagini delle donne afghane che riuscivano ad ottenere l’assistenza sanitaria, i laboratori medici che funzionavano, le sale operatorie in cui si salvavano vite. Ricordi del fascino di un Paese antichissimo e paesaggisticamente meraviglioso, con popolazioni in condizioni durissime, abbarbicate ai fianchi delle montagne cercando di tirar fuori, da terre di scarsa produttività, il necessario per sopravvivere. E’ con un misto di orgoglio per tanto lavoro fatto in Afghanistan e di grande frustrazione allo stesso tempo, che Vittorio Ruscio – dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo – ha lasciato a fine luglio, dopo 14 anni anni, l’Afghanistan. Il programma era semplicemente di andare in ferie dopo nove mesi consecutivi trascorsi là. Gli eventi, invece, hanno subìto una tale tragica accelerazione che Ruscio non avrebbe mai potuto immaginare. “Non avrei mai pensato che il ritmo e le modalità di questo passaggio di consegne assumesse le caratteristiche di un vero e proprio tracollo”, racconta ai nostri microfoni.

Ascolta l’intervista a Vittorio Ruscio

La preoccupazione per la sorte degli amici collaboratori afghani

“Ho una grande preoccupazione per l’enorme quantità di amici afghani rimasti lì e con cui abbiamo collaborato. Non si sa cosa succederà loro. Dopo anni, vedere finire le cose in questo modo fa male”, racconta con amarezza Ruscio, il quale osserva da lontano gli sviluppi nel Paese e, per quanto sia difficile – dice – fare ipotesi, non sono da escludere nuovi attentati da parte dell’Isis. Il quadro non è per niente chiaro – ammette – anche perché “non è chiarissimo quali siano i rapporti tra Isis e Talebani. Quanto ci sia un gioco delle parti, un conflitto in atto”.

Mancano interlocutori e canali per l’invio degli aiuti umanitari

Mentre le evacuazioni da Kabul volgono al termine, “una crisi più ampia è appena iniziata” in Afghanistan e per i suoi 39 milioni di abitanti”, ha detto Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, ribadendo l’appello affinché le frontiere rimangano aperte e più Paesi condividano “questa responsabilità umanitaria” assieme a Iran e Pakistan, che ospitano già 2,2 milioni di afghani. Con l’assistenza delle Ong in loco continueremo il supporto per gli afghani, ha detto da parte sua il portavoce della Commissione Ue, Mamer. Intanto la Russia chiede una conferenza internazionale per discutere la ripresa economica dell’Afghanistan. Come si farà, visto che l’OMS ha avvertito che le scorte di forniture mediche finiranno entro pochi giorni? “Al momento la questione è che, non essendoci un governo, mancano gli interlocutori”, osserva Ruscio. “Non c’è una viabilità, è difficile raggiungere la popolazione. Non si sa esattamente con chi trattare. Cosa i Talebani faranno, diranno, metteranno in piedi, quali saranno i ministeri… non si sa nulla. Sappiamo che sono chiuse le banche, è stata congelata la banca centrale, non c’è possibilità di comprare beni di consumo, carburante. Si rischia – scandisce – un disastro, peraltro annunciato, che mette assieme la crisi dovuta alla guerra, quella dovuta alla siccità fortissima di quest’anno e quella dovuta al Covid”.

I Talebani e le Ong

L’auspicio è di trovare interlocutori credibili in una condizione di estrema empasse in cui, per esempio, “l’aeroporto di Kabul i talebani non sono in grado di gestirlo. Non hanno il personale. Si rischia proprio che non possano arrivare i beni. Un bel problema”. Il settore sanitario ha migliaia di impiegati pagati dal ministero della sanità pubblica, spiega ancora Ruscio. “Ora, pur volendo mandare soldi, a chi li mandiamo? L’unica cosa possibile, sempre che le Nazioni Unite abbiamo il via libera, è attivare programmi umanitari a favore delle fasce povere direttamente realizzate dall’Onu ed eventualmente dalle Ong a cui dovrà essere dato il permesso di lavorare. Tenendo conto che i Talebani non sono particolarmente amici delle Ong – denuncia – basti pensare alla quantità di vaccinatori uccisi dai Talebani, agli sminatori messi in una stanza e fucilati. Il problema grosso è come si fa a gestire lo Stato. Non ci sono i canali, i conti correnti fisici in cui versare i soldi”.

La fragilità delle strutture statali e militari di fronte alla spinta talebana

Prima del tracollo, la comunità internazionale si era profilata alcuni scenari, secondo Ruscio: si sarebbe arrivati a un governo di coalizione con i Talebani oppure si sarebbe arrivati a un governo talebano attraverso un colpo di Stato. “I Talebani non hanno voluto sentire ragioni e hanno voluto prendere il potere con la forza. La seconda cosa che è andata male – analizza ancora Ruscio – è che, nel momento in cui si è proceduto a un ritiro militare affrettato, tra gli stessi afghani è circolata la rassegnazione e l’intero esercito si è letteralmente liquefatto”.  Ruscio spiega inoltre di non condividere l’opinione per cui i Talebani rappresenterebbero l’Afghanistan. A parte alcune zone dove si è indifferenti alla forma di governo perché prevalgono gli usi che comprendono, per esempio, di non mandare i figli a scuola, per il resto l’Afghanistan non è più quello di vent’anni fa: “C’erano persone competenti che lavoravano a progetti. Si è anche lavorato molto nelle zone rurali. Il problema è che le strutture statali e militari – precisa – non erano in grado di sopportare questa spinta. E comunque la presenza straniera non è mai stata molto apprezzata”.

Strade, ospedali, programmi educativi: i frutti dell’impegno nel Paese

Lo sforzo della comunità internazionale in generale è stato enorme. Due terzi del bilancio dello Stato veniva sostenuto dai donatori internazionali. Sanità, istruzione, servizi agricoli, infrastrutture, pensioni. Noi ci siamo concentrati sulla sanità: abbiamo aperto reparti ustionati, cardiochirurgia, gratuita, il centro ambulanze di Herat, abbiamo rafforzato ospedali. Moltisimi interventi a favore delle donne. Costruito diverse strade. L’Afghanistan è grande due volte e mezzo l’Italia, aveva 10mila km di strade, niente. Abbiamo edificato strade che permettevano di arrivare nei luoghi in tempi ragionevoli e in tutte le condizioni climatiche. Poter portare i prodotti agricoli nei mercati e poterle vendere.

Il timore che le energie profuse siano vanificate

Quanto rischia di andare disperso il lavoro fatto? “Io credo che dipenderà dal tipo di governo che verrà messo in piedi e dall’atteggiamento dei Talebani”, risponde Ruscio. “Se ripeteranno l’atteggiamento avuto alla fine degli anni Novanta con l’applicazione della Sharia, temo che il Paese andrà indietro. Bisognerà avere la certezza di interagire con una struttura che consenta di gestire i programmi sanitari, educativi e che questi siano a favore della collettività. Sappiamo infatti che i Talebani già presenti nel territorio sono interessati a continuare le attività già avviate, ma il problema è l’estensione a tutti. Il problema poi resta come finanziare queste stesse attività”.

Exit mobile version
Vai alla barra degli strumenti