Il cardinale Ambongo: “La Repubblica Democratica del Congo è in pericolo”

Vatican News

Olivier Bonnel – Città del Vaticano

L’est della Repubblica Democratica del Congo è teatro di vessazioni quotidiane. Solo alla fine di novembre c’è stato un massacro nei villaggi di Kishihe e Bambo nei quali, secondo le Nazioni Unite, almeno 131 civili sono stati uccisi. Ma il bilancio effettivo delle vittime potrebbe essere superiore a 300. Risuonano le parole del presidente congolese Félix Tshisekedi il 10 dicembre, nel denunciare ancora una volta il vicino Ruanda, accusato di armare il gruppo ribelle M23: “Da quasi 30 anni, la regione orientale congolese è tormentato dalla violenza a causa della presenza di numerosi gruppi armati nella quasi totale indifferenza della comunità internazionale”. 

Una situazione diventata insostenibile

Papa Francesco, che visiterà il Paese alla fine di gennaio, non farà tappa a Goma – come previsto nel primo programma del viaggio di luglio, poi rimandato – perché troppo insicura. I timori sono legati per lo più all’incolumità della folla di persone che avrebbe potuto vederlo. La situazione è diventata insostenibile, secondo il cardinale Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinhasa, la capitale congolese. In Vaticano per partecipare alla riunione del Consiglio dei Cardinali, è intervenuto alla Radio Vaticana per denunciare l’indifferenza e l’impotenza della comunità internazionale in questo conflitto che sta devastando il suo Paese.

Ascolta l’intervista in francese al cardinal Ambongo

Eminenza, quale il suo stato d’animo di fronte alle violenze?

Siamo molto rattristati dalla situazione ricorrente nel Congo orientale, che dura da quasi tre decenni, di gruppi armati che non sono riusciti a controllare. Alcuni gruppi sono più sanguinari di altri, come l’ADF nella diocesi di Beni-Butembo e, attualmente, l’M23, vediamo quanto sta accadendo intorno a Goma. E purtroppo, secondo le informazioni che riceviamo da fonti attendibili, questo movimento è sostenuto dal Ruanda, e anche dall’Uganda, per seminare morte. Non capiamo bene cosa stia succedendo perché se si tratta di un conflitto legato a questioni di nazionalità o ai diritti di un popolo, c’è un altro modo per affrontare questo tipo di problemi. Ci si siede attorno a un tavolo, si discute, ci si accorda, si trova una soluzione, invece di passare il tempo a massacrare cittadini pacifici. Qualche giorno fa abbiamo ricevuto la notizia del massacro di Kishishe. Alcuni parlano di 300 morti, è inaccettabile! Ci chiediamo, e tutti i vescovi congolesi se lo chiedono, fino a quando continueranno le uccisioni?

Cosa può e deve fare la comunità internazionale per garantire che la situazione si calmi?

Come pastori del Congo che vivono a fianco della nostra gente, abbiamo amaramente constatato che la comunità internazionale è complice di ciò che è accaduto all’est del Paese, per il semplice motivo che tutti sanno cosa sta succedendo. Ma facciamo finta di non vedere… La realtà è lì per noi pastori. È davvero triste vedere un popolo sofferente. Abbiamo persino l’impressione che l’intera comunità internazionale, rappresentata dalla Monusco in Congo, sia impotente di fronte alla forza dell’M23 sostenuta dal Ruanda. È incredibile, inimmaginabile!

Lei intende che la Monusco (Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione nella Repubblica Democratica del Congo), rappresentata da diversi Paesi, è inutile?

Questa è l’impressione della stessa Monusco, che ha persino ammesso la sua impotenza di fronte all’M23. L’M23 ha armi più sofisticate della Monusco e non può fare nulla contro di essa, pensi… Tutte le Nazioni Unite messe insieme sono impotenti contro un piccolo gruppo di uomini armati, è incomprensibile. È qui che diciamo: tutti sanno, tutti vedono quello che sta accadendo, ma preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia e questo, per il popolo congolese, è inaccettabile.

Ci sono anche altri conflitti, e in particolare conflitti intercomunitari, che interessano la parte occidentale della Repubblica Democratica del Congo fino alla capitale Kinshasa. Qualche mese fa avevate già alzato la voce contro questa violenza. Teme che questo conflitto si diffonda? 

Io stesso ho fatto due visite nel territorio di Bakmouth perché è lì che è iniziato il conflitto. In realtà si tratta di un conflitto piuttosto ‘semplice’ per la gestione della terra tra le popolazioni che storicamente abitano questi territori, i Teke. Hanno l’abitudine di vendere ettari ad altre persone che vengono a coltivare, e il conflitto riguarda la gestione di questa terra. Ho richiamato l’attenzione sull’errore di presentare questo conflitto come un conflitto tra le due comunità, Téké e Yaka. Si tratta semplicemente di una questione di terra, di royalties dovute al popolo Teke. Analizzando a fondo la questione, siamo giunti alla conclusione che ciò accade perché lo Stato congolese si è dimesso, lo Stato è assente in questa parte del Paese e, naturalmente, quando lo Stato è assente, ci sono altre forze che prendono il potere e, per il momento, sono bande di delinquenti che hanno lasciato il lavoro nei campi, che approfittano di questi disordini per seminare morte e desolazione. La soluzione è molto semplice: lo Stato deve solo andare lì. La presenza dei militari e della polizia sarebbe sufficiente a riportare l’ordine.

Un mese fa, la CENCO (Conferenza episcopale del Congo), si è riunita in plenaria straordinaria. Al termine di questo incontro, lei ha rilasciato una dichiarazione molto forte: “Il nostro Paese è in pericolo”. Avete anche invitato i leader politici ad assumersi le proprie responsabilità. Che cosa significa? 

L’episcopato congolese ha sempre svolto un ruolo profetico nella Repubblica Democratica del Congo. Il rischio di balcanizzazione del nostro Paese è sempre stato un tema che i vescovi del Congo hanno affrontato quando si sono incontrati. Ora, con la recrudescenza dei conflitti nell’Est, soprattutto con l’M23, abbiamo la chiara convinzione che ci siano forze esterne che vogliono davvero spezzare il nostro Paese in piccoli Stati. Per questo i vescovi, nella loro missione profetica, quando si sono riuniti in assemblea plenaria straordinaria, hanno scritto un messaggio al popolo dal titolo molto evocativo: “L’ora è grave”. In effetti, l’ora è grave in Congo. Ecco perché i vescovi non solo hanno inviato questo messaggio, ma hanno anche invitato tutto il popolo congolese, a partire dai fedeli cattolici, a marciare, ad alzarsi in piedi e a gridare il loro totale rifiuto di questo progetto di balcanizzazione del nostro Paese, a gridare la loro stanchezza per la recrudescenza dei conflitti nell’Est, con morti continue. Sono particolarmente felice di vedere che domenica scorsa (4 dicembre), in tutte le diocesi del Paese, in tutte le grandi città, ci sono state manifestazioni non solo di cattolici, ma anche di protestanti, di tutti gli uomini e le donne di buona volontà che hanno voluto rispondere all’appello dei vescovi. Ci auguriamo che questa marcia dia i suoi frutti e faccia rinsavire le persone.

Oggi la nazione congolese è in pericolo?

Crediamo che la nazione congolese sia in pericolo e abbiamo l’impressione che la parte congolese non sia sufficientemente consapevole di questo pericolo che si profila all’orizzonte. Sono l’arcivescovo di Kinshasa, vivo a Kinshasa, e a volte non ho l’impressione che chi è al potere non si preoccupi di ciò che accade in oriente. Litigano su questioni secondarie, sulla spartizione del potere, sulla ripartizione dei profitti, mentre il Paese brucia a est. Speriamo che, grazie a questa marcia che si è appena svolta, si crei una sorta di fronte comune per presentare meglio la causa del Congo e aiutare il Paese a guardare in faccia alla propria realtà. Perché diciamo sempre: se ci sta succedendo tutto questo, è perché la colpa è nostra, è anche colpa nostra. Non siamo stati in grado, come Paese, come governo, di organizzarci meglio e di difendere meglio la causa del nostro popolo. Ho persino l’impressione che alcuni dei nostri compatrioti facciano il gioco del nemico e che alla fine siano i piccoli a pagare il prezzo più alto, come sta accadendo ora a Kishishe.

Quando dice “fare il gioco del nemico”, cosa intende? 

Ci sono alcuni che si lasciano comprare facilmente. La corruzione nel nostro Paese ha raggiunto un punto tale che i congolesi non possono resistere al denaro. Soprattutto chi è in una posizione di potere, chi è responsabile della sicurezza del Paese, del suo controllo e della protezione collettiva del popolo. Quando qualcuno si presenta con un po’ di soldi, cede immediatamente, e le conseguenze sono quelle che stiamo pagando oggi.

Dobbiamo moralizzare la vita politica, ricreare una nuova cultura politica tra le élite? Cosa pensate che debba essere cambiato?

Il grande problema del Congo è l’uomo congolese. Abbiamo sempre detto che se oggi il Congo è malato, è perché l’uomo congolese è malato, cioè ha perso il senso dei valori. C’è stata una sorta di inversione di valori. Tutti corrono dietro al potere, soprattutto al potere politico: è diventato l’unico lavoro che tutti vogliono. In Congo, tutti vogliono fare i politici. Quindi, tutto è stato abbandonato: l’economia, le questioni sociali… tutto il resto non conta, solo la politica! Per arrivarci, le persone sono pronte a ogni tipo di compromesso, di corruzione. Questa ha raggiunto livelli tali che il nostro sistema giudiziario è oggi in sofferenza. In un Paese che non ha un sistema giudiziario organizzato, dove un popolo non può contare sulla giustizia, naturalmente la convivenza diventa impossibile.

Il 2023 sarà un anno importante, ci saranno le elezioni presidenziali. Cosa vi aspettate da questa scadenza? La CENCO, come ricordiamo, ha denunciato la strumentalizzazione delle precedenti elezioni…

In primo luogo, queste elezioni non dipendono dalla volontà della CENCO. Si svolgeranno in conformità con la Costituzione del Paese. Abbiamo vissuto quello che abbiamo vissuto durante la scelta dei leader della Commissione elettorale nazionale indipendente (CENI) dove non abbiamo un ruolo da svolgere. Ma questo non ci impedisce di continuare a svolgere il nostro ruolo, quello della CENCO, la Chiesa cattolica e fortunatamente anche la Chiesa protestante. Il nostro ruolo è quello di stare dalla parte della società civile, di osservare l’andamento delle elezioni. Ci auguriamo che si svolgano in condizioni migliori, in modo che il miglior candidato eletto dal popolo sia proclamato e possa presiedere il destino del nostro Paese.