I rischi del caporalato digitale

Vatican News

Fausta Speranza – Città del Vaticano

Vengono chiamati platform worker, sono i nuovi lavoratori che nel mondo e in Europa fanno capo in sostanza a una piattaforma on line. In Italia, secondo un’indagine dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, se ne contano oltre 570 mila. Per l’80,3 per cento dei casi si tratta di una fonte di sostegno importante o addirittura essenziale, mentre per circa la metà – 48,1 per cento – è il lavoro principale.

Non solo rider

Lo studio ha messo in evidenza che i rider e i fattorini rappresentano solo la metà di questo nuovo universo, con una quota rispettivamente del 36,2 per cento e del 14 per cento. Il resto dei platform worker  svolge incarichi online che vanno dalle traduzioni, alla stesura di testi, fino alla programmazione di software, alla realizzazione di siti web e così via. Oltre il 31 per cento di questi nuovi lavoratori non ha un contratto scritto e solo l’11 per cento ha un contratto di lavoro dipendente.

Si tratta, dunque, di un lavoro povero, fragile, che non permette ai giovani di costruire un futuro stabile, sottolinea Giorgio Banchieri, docente di Scienze Sociali ed Economiche alle Università Sapienza e Luiss:

Ascolta l’intervista con Giorgio Banchieri

L’app spersonalizza, sottolinea Banchieri: è difficile capire chi sia la controparte e quindi anche comprendere come gestire le esigenze o le conflittualità all’interno del lavoro. “La tecnologia non è equa e solidale, come a volte si vorrebbe far pensare”, avverte lo studioso. Banchieri sottolinea il rischio di “caporalato digitale”, spiegando che si aspetta la presentazione della proposta di direttiva della Commissione europea per il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle piattaforme. I miti della sharing economy non reggono più: le piattaforme digitali richiamano sempre più forme di lavoro rigidamente controllate nei tempi e nei modi, pagate spesso a cottimo (50,4 per cento dei casi) e il cui guadagno risulta fondamentale per chi lo esercita. Dovrebbero essere riclassificati come lavoratori subordinati, usufruendo così di alcuni diritti fondamentali (tra cui salario minimo, orario di lavoro, sicurezza e salute sul lavoro, forme di assicurazione e protezione sociale) finora non contemplati. Queste garanzie – spiega Banchieri – consentirebbero non solo di bilanciare in maniera più equa l’interesse dei fruitori di tali servizi con il diritto a condizioni di lavoro dignitose, ma anche di assicurare condizioni concorrenziali più sane nei diversi mercati e una maggiore trasparenza fiscale.  

Non c’è lavoro senza ripresa economica e riforme

L’Italia non deve perdere il treno del Recovery Fund e delle riforme, avverte Banchieri, sottolineando però che l’attenzione è importante in tutta Europa. Ricorda poi che l’inflazione è salita bruscamente in molte economie e l’aumento è stato maggiore e più duraturo di quanto ci si aspettasse. I costi alimentari ed energetici sono cresciuti notevolmente, con gli impatti maggiori sulle famiglie a basso reddito. Si può sperare – spiega – che gran parte delle pressioni inflazionistiche siano sorte a causa di persistenti strozzature nell’approvvigionamento, innescate da carenze di manodopera, chiusure intermittenti di impianti e ritardi nelle spedizioni, nonché da interruzioni sui mercati dell’energia. Con il miglioramento della situazione sanitaria, la stabilizzazione della domanda e il ritorno delle persone alla forza lavoro, queste strozzature potrebbero venir meno e le pressioni inflazionistiche si potrebbero allentare nel corso del 2022-23.

Salvare l’ambiente con le tecnologie, ma combattendo le diseguaglianze

L’esperto di scienze sociali ed economiche sottolinea l’improrogabilità delle politiche di transizione ecologica per ribadire però che bisogna guardare alle diseguaglianze tra Paesi e all’interno delle società: altrimenti – avverte – non si può pensare di procedere e far procedere tutti secondo la stessa road map e questo potrebbe significare far saltare la road map stessa dei necessari cambiamenti dall’uso di idrocarburi alle risorse rinnovabili. In tutto questo le tecnologie sono una grande opportunità, ma rischiano di essere esclusive per alcuni. Da studioso Banchieri raccomanda che  il sostegno politico sia flessibile, adeguato all’evoluzione della situazione sanitaria ed economica, ma soprattutto raccomanda che in tutte le politiche e le riforme si ponga al centro la persona. La pandemia ha portato alla ribalta alcune debolezze nelle catene globali del valore: troppa concentrazione delle fonti di input e non sufficiente diversificazione, spiega. Sarà importante rivederli – raccomanda – per garantire una maggiore resilienza nelle catene globali del valore e garantire condizioni di parità a livello generale. In sostanza – spiega Banchieri – bisogna anche pensare di assicurare le tecnologie necessarie per “sopravvivere” alle transizioni a Paesi e fette di popolazione che ne rimarrebbero fuori. 

La centralità della persona

Banchieri ci tiene a sottolineare che tutto questo non si può fare dimenticando la centralità della persona umana: le tecnologie energetiche o nuove tecniche produttive non possono essere perseguite e sostenute solo l’obiettivo del profitto. Banchieri non cita solo Paesi in difficoltà, ma anche situazioni di degrado post industriale o di nuovo impoverimento in Europa. E torna a ribadire che, senza una gestione politica accorta, le nuove tecnologie cambiano i contenuti del lavoro, rivoluzionando tutto a partire dai luoghi di produzione e creando forti tensioni sociali. Bisogna – avverte Banchieri – accompagnare i cambiamenti con riforme profonde, ad esempio della pubblica amministrazione, del diritto, per dare certezze a chi lavora, alle nuove generazioni che – ribadisce – sono oggi fortemente penalizzate. Non si tratta solo di gestire le novità di una app per datore di lavoro, si tratta anche – ricorda – di far fronte alla tendenza delle grandi aziende di recuperare profitti, riducendo ancora i “costi del lavoro umano”. Banchieri cita alcuni think thank stranieri che affrontano queste tematiche, per poi ammettere che purtroppo però nell’urgenza della pandemia non si avverte, a parte alcune nicchie appunto di riflessione, un dibattito all’altezza dei tempi.