I monaci a Erbil: a Mosul hanno distrutto le chiese, ripaghiamo con la preghiera

Vatican News

Antonella Palermo – Città del Vaticano

L’occupazione dell’Isis della Piana di Ninive ha svuotato della presenza cristiana questa regione. Più di 100mila cristiani sono stati costretti ad abbandonare le loro case insieme ad altre minoranze perseguitate come gli yazidi. Molte di queste famiglie hanno trovato rifugio nel Kurdistan iracheno, nel quartiere cristiano di Erbil, nei campi profughi in Giordania, Siria, Turchia e Libano, o hanno cercato asilo in Europa e in altri continenti. Negli ultimi anni almeno 55mila cristiani iracheni sono espatriati anche dal Kurdistan iracheno. La furia distruttrice degli jihadisti non ha risparmiato le loro chiese e proprietà, andate distrutte o gravemente danneggiate.

La ricostruzione del patrimonio storico cristiano

Una parte importante del patrimonio storico cristiano è stato salvato da questa distruzione grazie a monsignor Najib Mikhael Moussa, arcivescovo di Mosul dei Caldei, che è riuscito a mettere in salvo oltre 800 manoscritti storici che vanno dal 13mo al 19mo secolo. Un’impresa per il quale il presule domenicano è stato insignito nel 2020 dall’UE del Premio Sakharov. Aiuto alla Chiesa che Soffre sta contribuendo alla ricostruzione delle case (più di 14mila) e delle chiese distrutte o danneggiate (delle 363 strutture interessate che comprendono anche edifici con funzioni sanitarie, di sostegno sociale ed educative, 34 sono state totalmente distrutte, 132 incendiate e 197 parzialmente danneggiate).

Il lento rientro

A novembre 2020 quasi la metà dei cristiani di Ninive è rientrata, mentre l’80% delle chiese nella Piana era in fase di ricostruzione (con l’eccezione di Mosul, dove, a causa di lentezze amministrative i lavori sono cominciati solo in una chiesa su dieci). Ad oggi circa il 57% delle abitazioni danneggiate appartenenti a famiglie cristiane nella regione e inserite nel piano di intervento erano state rimesse in piedi, di cui il 35% grazie ad Acs che tra il 2014 e la fine del 2020 ha raccolto più di 48 milioni di euro per garantire la presenza cristiana in Iraq.

Anche il monastero di San Giorgio a Mosul è andato distrutto. Padre Yohanna Samer Soreshow, dopo l’ordinazione sacerdotale in Iraq, nel 2006 si spostava in Italia per frequentare il Pontificio Istituto Biblico fino al 2014. Avrebbe voluto rientrare nel suo Paese ma la situazione di assalto dell’Isis glielo impedì: quattro giorni dopo la sua difesa di dottorato, il sedicente Stato islamico entrava a Mosul, sua città natale. Sapeva che non sarebbe più potuto tornare là, si diresse a Erbil. Il sacerdote, ora Superiore della Comunità di monaci Caldei a Erbil, racconta come due anni fa sia cominciata la costruzione di un nuovo monastero per sostituire quello perso a Mosul.

Ascolta l’intervista a padre Yohanna Samer Soreshow

Come si è sentito di fronte a questa espropriazione?

R. – Ci è stato tolto tutto ma c’è sempre quell’ancoraggio alla fede, quella speranza di tornare a come era prima. Siamo aggrappati qui, il vecchio monastero è finito in macerie, c’è la speranza di rifarlo qua ma anche quella di poter un giorno ritornare là. Ancora i nostri occhi sono rivolti a quei luoghi devastati, verso quei luoghi sconsacrati dove è stata sepolta ogni traccia della nostra presenza millenaria. I cristiani non sono stranieri qui, siamo autoctoni, noi ancora parliamo l’aramaico, la lingua di Gesù, siamo radicati qui, anche se ci siamo trasferiti da una città all’altra. C’è una miscela di sentimenti. Ci sentiamo feriti, derubati, calpestati nella nostra dignità, ma ripaghiamo sempre con la preghiera, con l’intenzione di voler bene e la volontà molto radicata nel Vangelo di far del bene nel tentativo di creare una società migliore affinché la gente che ha danneggiato le minoranze possa cambiare.

Come vi siete preparati all’arrivo di Papa Francesco?

R. – Noi diciamo ‘fratello’, sia in arabo che in aramaico, intendendo qualcuno soccorre chi sta male. Abbiamo sempre voluto che i nostri confratelli in Cristo sentissero il nostro dolore e ci soccorressero. La pervicacia del Santo Padre di venire qui e di non deludere le nostre aspettative, e il ricordo del popolo iracheno nelle sue preghiere ci hanno dato conforto in modo che noi potessimo non soffrire due volte. Lui viene per dire “io sono vostro fratello, sento il vostro dolore, porto pace, speranza, amore”. Tutti si stanno preparando con i mezzi possibili che hanno – noi non stiamo vivendo una stagione al top dal punto di vista economico – ma tutti, musulmani e cristiani, tutti, si stanno adoperando per accogliere con eleganza il Papa. Lui ha fatto un gesto ‘folle’ venendo qui ma a noi sta dando una estrema felicità perché sappiamo che abbiamo un valore ai suoi occhi. Lui non viene qua per risolvere i nostri problemi ma per aiutarci a volerci bene e a dialogare, e poter dare valore al cittadino a discapito dell’appartenenza etnica o religiosa. Nella cittadina di Qaraqosh piccoli e grandi si stanno preparando con danze, disegni, abiti particolari. A Erbil ci auguriamo che questa fraternità sia proprio quella di chi soccorre, che non che torniamo alla pagina di sangue in cui il fratello uccide il suo fratello.

Vuole dirci qualcosa sulla condizione dei rifugiati?

R. – Sono stato un po’ ingabbiato con il servizio dell’insegnamento ma quando andavo nei campi che conoscevo mi rendevo conto che la realtà che avevo visto sui social quando ero stato fuori, era ancora più dolorosa. Quando sono arrivato mi sono reso conto che la gente era senza niente, eppure ancora con un flebile sorriso. “Ci hanno tolto le case ma abbiamo ancora la nostra fede, non ce l’hanno tolta”, dicevano. I beni terreni torneranno forse per le generazioni future, ma l’importante è non aver perso la fede. E’ stato incoraggiante per me che chiedevo di poter lavorare, chiedevo dove, come… Questa gente ha sofferto a tal punto che dovrei prendere lezioni da loro, dovrei essere più forte e coraggioso, come loro.