I martiri dell’Uganda, esempio di ecumenismo del sangue

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Andrea De Angelis – Città del Vaticano 

Uccisi perchè cristiani, alla fine del XIX secolo. Loro ed i fratelli anglicani, uniti da una tragica fine, testimone “ancora oggi del potere trasformante del Vangelo di Gesù Cristo”. Pochi anni fa Papa Francesco ha chiesto che il loro ricordo non sia “di circostanza”, che la loro eredità “non sia custodita come un gioiello in un museo”. La Chiesa cattolica venera quali Santi Martiri Ugandesi un gruppo di ventidue servitori, paggi e funzionari del re di Buganda, nell’odierna Uganda, convertiti al cattolicesimo dai missionari d’Africa del cardinale Charles Lavigerie, i cosiddetti “padri bianchi”, che vennero fatti uccidere in quanto cristiani sotto il regno di Mwanga II tra il 15 novembre 1885 ed il 27 gennaio 1887. La data del 3 giugno ha una valenza doppia: è l’anniversario, ricordato dal Martirologio Romano, del martirio di Carlo Lwanga con 12 compagni; inoltre nel Calendario generale è la memoria liturgica comune di tutti i ventidue martiri ugandesi.

La storia dei missionari 

Inizialmente l’opera dei missionari, avviata nel 1879, venne ben accolta dal re Mutesa così come dal successore Muanga, che però si fece influenzare dal cancelliere del regno e dal capotribù, decidendo la soppressione fisica dei cristiani, alcuni dei quali uccise addirittura con le proprie mani. Questa violenta persecuzione vide in totale un centinaio di vittime. Tra loro Carlo Lwanga, capo dei paggi del re Muanga, bruciato vivo insieme a dodici compagni il 3 giugno 1886. Papa Benedetto XV beatificò i ventidue gloriosi martiri il 6 giugno 1920. A canonizzarli l’8 ottobre 1964 fu Paolo VI che cinque anni dopo, durante il Viaggio Apostolico in Africa, intitolò loro anche il grande santuario di Namugongo, eretto sul luogo del martirio di San Carlo Lwanga e dei suoi compagni. Sono, questi martiri, i primi fedeli cattolici dell’Africa sub-sahariana ad essere proclamati santi. 

La libertà del Vangelo

Il parroco della chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda, nel quartiere Ardeatino a Roma, è don Luigi D’Errico, referente diocesano della pastorale per le persone con disabilità. “I martiri che ricordiamo oggi erano persone molto giovani, appartenenti a famiglie ricche, in grado di avere molti privilegi a condizione che la loro vita appartenesse però al despota, al tiranno. Loro invece si convertirono, uno di loro venne battezzato poco prima che iniziasse la persecuzione. Scelsero di non fuggire, di seguire l’uno la sorte degli altri”. Inizia così il ricordo dei martiri ugandesi di don Luigi D’Errico, che sottolinea come quel dittatore “voleva dominare questi giovani, averli intorno come fossero oggetti”. Furono giovani che decisero di “non farsi dominare da nulla, scegliendo la libertà del Vangelo. A volte nella vita capita proprio il contrario, crediamo di essere liberi, ma siamo dominati da molte cose”. Il parroco della chiesa romana sottolinea come il 3 giugno sia molto partecipato in Uganda, “prima della pandemia – rimarca – fino a due milioni di persone rendevano omaggio ai martire ugandesi, con molte persone provenienti da altri Paesi”. 

Ascolta l’intervista a don Luigi D’Errico

I martiri di ieri, i martiri di oggi. “Il martirio non appartiene solo al passato, è oggi e Papa Francesco ci ricorda come i martiri siano in aumento”, prosegue don D’Errico. Ci sono poi i “martiri invisibili, come i più poveri le cui storie emergono a fatica. Martiri sono i disabili, tenuti sempre ai margini, anche dal punto di vista culturale. Martiri sono tantissimi cristiani nel mondo, accolti anche in Italia, penso agli egiziani copti che non possono liberamente esprimere la fede. Noi abbiamo accolto molte famiglie”. Il parroco conclude denunciando come “sia poco conosciuto ciò che accade in tante parti del mondo ai nostri fratelli cristiani, il martirio non è mai finito, anzi è aumentato”. 

La Via Crucis dei martiri ugandesi

Per accrescere la sofferenza dei condannati, il sovrano decise di trasferirli dal Palazzo reale di Munyonyo a Namugongo, luogo delle esecuzioni capitali: 27 miglia separano i due luoghi, oltre 43 chilometri che diventarono una vera e propria “Via Crucis”. Lungo la strada Carlo e i suoi compagni furono oggetto delle violenze dei soldati del re che cercarono, con ogni mezzo, di farli abiurare. In otto giorni di cammino, molti morirono trafitti da lance, impiccati e persino inchiodati agli alberi. Il 3 giugno i sopravvissuti giunsero sulla collina di Namugongo, dove Carlo Lwanga e i suoi compagni, insieme ad alcuni fedeli anglicani, vennero arsi vivi. Uno tra loro, Bruno Srerunkuma, dirà, prima di spirare: “Una fonte che ha molte sorgenti non si inaridirà mai. E quando noi non ci saremo più, altri verranno dopo di noi”.

Un dono condiviso 

“Il dono dello Spirito Santo è un dono dato per essere condiviso”, anche nel martirio. Con queste parole Papa Francesco il 28 novembre 2015, nel corso del suo undicesimo viaggio apostolico, ricordava il sacrificio di Carlo Lwanga e dei compagni nell’omelia alla Messa celebrata al Santuario dei Martiri Ugandesi di Namugongo. Il Papa ha chiesto, in quell’occasione, di ricordare anche i martiri anglicani, “la cui morte per Cristo dà testimonianza all’ecumenismo del sangue”. Poi l’invito a tutti i fedeli di ricevedere e custodire l’eredità dei martiri ugandesi nella sua pienezza, non facendola diventare “un gioiello da museo”: 

Cari fratelli e sorelle, questa è l’eredità che avete ricevuto dai Martiri ugandesi: vite contrassegnate dalla potenza dello Spirito Santo, vite che testimoniano anche ora il potere trasformante del Vangelo di Gesù Cristo. Non ci si appropria di questa eredità con un ricordo di circostanza o conservandola in un museo come fosse un gioiello prezioso. La onoriamo veramente, e onoriamo tutti i Santi, quando piuttosto portiamo la loro testimonianza a Cristo nelle nostre case e ai nostri vicini, sui posti di lavoro e nella società civile, sia che rimaniamo nelle nostre case, sia che ci rechiamo fino al più remoto angolo del mondo.