Chiesa Cattolica – Italiana

I cento anni di Edgar Morin: filosofo della complessità e dell’ossessione per la verità

Luigi Maria Epicoco – Città del Vaticano

C’è un episodio illuminante alla comprensione di Edgar Morin, il filosofo della “complessità”, e che, come bene egli stesso ha intuito, è stato forse l’anima nascosta di tutta la sua lunga vita e la sua opera: «La morte di mia madre, avvenuta quando avevo solo dieci anni, è l’evento più importante della mia vita e le sue conseguenze decisive per il mio destino. Non avevo capito che quella morte era inseparabile dalla mia ossessione per la verità. Mio padre, infatti, aveva cercato di nascondermi quella morte, credendo di potermi illudere inventando tutti quegli stupidi racconti sulla sua partenza; ma io in realtà avevo capito, sapevo dell’irreparabile sin da quando avevo visto, il giorno stesso del funerale, le sue scarpe e il suo vestito nero. All’orrore per la perdita dell’amore si legò allora in me, e irrevocabilmente, l’orrore per la menzogna. Disgustato dalla pietosa e ottusa bugia di mio padre, ho finito per nascondergli la mia stessa tristezza: non gliela ho mai mostrata, ed egli l’ha scoperta solo quarant’anni dopo, quando l’ho evocata nel mio Diario di California. Non ho mai preteso di possedere la verità, ma sono sempre stato ossessionato dall’errore e dalla cecità».

Se dovessimo trovare un terreno comune di dialogo tra Morin e il Cristianesimo, forse lo potremmo trovare esattamente in questa “ossessione”. La passione per la Verità crea una solidarietà umana che ci fa riconoscere tutti sulla stessa barca, tutti con la medesima domanda.  E se le risposte inevitabilmente ci separano, la domanda però crea un legame di simpatia e mutuo rispetto. Morin infatti non ha mai nascosto l’eredità ricevuta più da Spinoza che dal Vangelo stesso: «Ho personalmente una concezione erede di Spinoza, basata sulla capacità creatrice della natura. Credo che la creatività non nasca da un creatore iniziale, ma da un evento iniziale». Sembra completamente assente la figura di Gesù come figlio di Dio, recuperato invece solo in chiave meramente orizzontale. Sembra di sentire le risposte che i discepoli danno a Gesù quando li interroga su cosa la gente pensa di lui: «Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti”» (Mc 8, 28). Ma anche se manca in Morin la messa a fuoco principale su Gesù, egli non perde di vista ciò che sta a cuore al Suo messaggio, come testimonianza che il cammino della ragione laica condotto con lealtà conduce alle medesime priorità della ragione credente. Ecco perché i temi cari a Morin li ritroviamo chiari anche nel Magistero degli ultimi anni.

Ad esempio in occasione della pubblicazione della lettera enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, Morin rilasciò un’intervista al giornale francese «La Croix» sottolineando ciò che spesso una narrazione eccessivamente veloce e superficiale non riesce a cogliere del pensiero della Chiesa attuale: «Francesco definisce “l’ecologia integrale”, la quale non è affatto quell’ecologia “profonda” che pretende di convertirci al culto della Terra, subordinando tutto il resto. Egli mostra che l’ecologia riguarda le nostre vite in profondità, la nostra civiltà, i nostri modi d’agire, le nostre riflessioni. Più profondamente, critica un paradigma “tecno-economico”, questo modo di pensare che presiede tutti i nostri discorsi, rendendoli obbligatoriamente fedeli ai postulati tecnici ed economici per risolvere ogni cosa. Questo testo segna al contempo una presa di coscienza, un incitamento a ripensare la nostra società e ad agire». Morin coglie ciò che molto spesso sfugge anche a noi credenti: la parola di Papa Francesco non è una parola che si adegua a una visione mondana della storia attuale, è invece parola che prende sul serio la complessità del nostro esistere e ridà profondità a temi, come quelli della cura del creato, che rischiano di diventare ideologici.

Ed è proprio a partire dal rischio ideologico che Morin continua la sua riflessione attenta sul pensiero del Papa, cogliendo l’invio a riscoprire un umanesimo nuovo diverso da un antropocentrismo ateo: «Precisiamo la nozione di umanesimo — continua Morin —  la quale ha un senso doppio, come d’altronde dice Francesco nel suo discorso, criticando una forma di antropocentrismo. Esiste in effetti un umanesimo antropocentrista, che mette l’uomo al centro dell’universo, che considera l’uomo come solo soggetto dell’universo. Insomma, in cui l’uomo prende il posto di Dio. Non sono credente, ma penso che questo ruolo divino che l’uomo talvolta si attribuisce sia assolutamente insensato. E una volta scivolati in questo principio antropocentrista, la missione dell’uomo, molto chiaramente formulata da Cartesio, è di conquistare e dominare la natura. Il mondo della natura è diventato un mondo di oggetti. Il vero umanesimo consiste al contrario nel riconoscere in ogni essere vivente al contempo un essere simile e diverso da me». Morin ovviamente non riesce a cogliere che la riflessione di Papa Francesco nasce proprio dalla categoria cristiana della centralità del Cristo uomo-Dio. Solo perché Cristo è al centro della realtà, e della realtà dell’uomo, che possiamo cogliere la verità dell’uomo nella sua complessità e intrinseca relazionalità con se stesso, con gli altri e con il creato. Se Morin vi giunge per sensibilità, il pensiero cristiano vi giunge attraverso la via della fede. Ragione e fede quindi non sono in opposizione ma sono davvero «le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità» (Fides et ratio, 1).

Un altro aspetto da sottolineare è lo sguardo escatologico di Morin sulla realtà. Ovviamente usiamo il termine escatologico in senso lato, intendendo la capacità di saper vedere oltre ciò che la realtà stessa mostra di se stessa.

In un tempo come il nostro dominato da statistiche e calcoli che non lasciano molto spesso spazio alla speranza, Morin, ci offre la fiducia in un imprevisto che sembra essere sempre sotteso alla storia e per cui vale la pena vivere: «Non sono né ottimista né pessimista. Se dovessi guardare con freddezza alla realtà, non potrei nutrire speranze. Ma la storia dell’umanità ci insegna che la salvezza si manifesta all’improvviso e inaspettatamente. Come scriveva il poeta Höldelin, “là dove c’è il pericolo, lì sorge la salvezza”. Siamo fatti in modo che, solo allorché cadiamo nel baratro, prendiamo coscienza della situazione. Non penso nemmeno, con Gramsci, che si debba parlare di ottimismo della ragione e pessimismo della volontà, perché è la ragione a mostrarci i pericoli che corriamo. Sento che siamo in pericolo, e tutto il mio sforzo è teso a impedire che esso ci distrugga». Ci verrebbe da dire che aveva ragione il poeta Eugenio Montale: «Un imprevisto / è la sola speranza».

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