Chiesa Cattolica – Italiana

Giornata del malato, tenere insieme misericordia e medicina

Adriana Masotti – Città del Vaticano

“Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”: questo versetto tratto dal Vangelo di Luca fa da titolo alla 30.ma Giornata Mondiale del Malato che si celebrerà l’11 febbraio prossimo. Per l’occasione Papa Francesco ha inviato un messaggio in cui esorta medici, infermieri e operatori sanitari ad esercitare nella loro professione “forza e tenerezza insieme”, guardando a Dio “ricco di misericordia” che “si prende cura di noi con la forza di un padre e con la tenerezza di una madre”. A ciascuno di noi rivolge poi l’invito a farci vicini concretamente alle persone malate o anziane sole che, scrive Francesco, “vivono a casa e aspettano una visita!”. 

L’allenza medico-paziente: competenza e umanità

Nel messaggio il Papa sottolinea la dignità di ogni ammalato che “è sempre più importante della malattia”. Per questo, misericordia e competenza, professione e missione, per quanto riguarda l’attività di cura, non possono essere separati. Abbiamo chiesto di commentare le parole del Papa ad una persona che le ha sperimentate in prima persona. E’ fra Andrea Dovio, francescano, segretario del ministro provinciale dell’Umbria. Vive ad Assisi nel Convento della Porziuncola ed è un medico, specialista in medicina interna. Lo scorso anno ha prestato servizio, per un periodo, nel Covid Hospital di Tortona, in Piemonte, in piena emergenza pandemia.

Ascolta l’intervista a fra Andrea Dovio

Fra Andrea, lei è un religioso e un medico, come sente l’affermazione del Papa “ogni approccio terapeutico non può prescindere dall’ascolto del paziente, della sua storia, delle sue ansie, delle sue paure”? Nella realtà attuale, secondo lei, i medici e gli operatori sanitari sentono questa la responsabilità?

Non si può che concordare con l’affermazione di Papa Francesco che il malato è sempre più importante della sua malattia e a me pare che negli ultimi decenni, con l’abbandono del modello detto paternalistico – in cui il medico sapeva e decideva e il paziente non sapeva e obbediva – , in favore di quello dell’Alleanza terapeutica, siamo stati, possiamo dire, costretti a curare maggiormente la relazione con il malato. E penso che, in realtà, noi tutti ci siamo accorti che questo rende la relazione tra medico e paziente non soltanto molto più efficace dal punto di vista terapeutico ma anche molto più bella e arricchente per noi medici. Tra l’altro, proprio quello che sta succedendo in questi giorni esemplifica in modo drammatico l’importanza della relazione e insieme anche la consapevolezza che ne ha la classe medica. Mi riferisco a quel breve documento della Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva, il SIAARTI, in cui si affronta la questione dei pazienti Covid-19, soprattutto no vax o negazionisti, che rifiutano le cure Intensive, pur giudicate utili o appropriate. Ecco, questo è un caso in cui la disponibilità di competenze, di strumenti, di medicine, di tecnologia, non è sufficiente se non c’è una previa relazione di fiducia tra medico e paziente, se non si è riusciti, per vari motivi, a costruire questa relazione.

Nel messaggio del Papa si parla di misericordia, questo è anche il tema della 30.ma Giornata Mondiale del Malato. Che cosa vuol dire esattamente questo nell’ambito della salute?

Mi pare che l’applicazione sia immediata a partire dall’etimologia. Misericordia vuol dire un cuore aperto, attento, sensibile alla miseria e alla povertà dell’altro e questo è intrinseco ad una relazione terapeutica in cui il medico è al servizio del paziente nella sua fragilità, nel suo bisogno di salute. Poi la tradizione cristiana ci consegna tra le opere di misericordia corporali proprio quella di visitare gli ammalati e mi ha colpito anche questa sottolineatura del Papa che, nel commentare il comando di Gesù: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”, fa riferimento alla combinazione di forza e tenerezza. Forse una traduzione per gli operatori sanitari potrebbe essere questa: vedo nella forza la competenza dell’operatore sanitario, la sua competenza tecnica, ma anche di comunicazione e di relazione, e nella tenerezza la sua capacità di accogliere il paziente con tutta la sua dimensione soggettiva di sofferenza, di aspettative, di bisogni e di paure, in una comprensione che sa accogliere anche con rispetto – dice questo documento che citavo prima -, con un atteggiamento non giudicante, anche un eventuale fallimento della relazione stessa. Il paziente non verrà mai abbandonato perché il medico o l’operatore sanitario avranno cura di lui anche quando il paziente rifiutasse la proposta terapeutica. In questo vedo l’espressione della tenerezza.

Il messaggio di Papa Francesco termina con l’invito alla vicinanza ai malati e alle persone più anziane che, a casa, “aspettano una visita”. Tutti possiamo fare qualcosa per chi soffre?

Certo, e questo a partire proprio da quella misericordia che è un cuore sensibile ai bisogni e alle povertà dell’altro, un cuore che si traduce in un occhio attento cominciando dai propri familiari, dai propri vicini di casa. Penso a quante persone, ad esempio, hanno aiutato durante il periodo del lockdown della prima ondata della pandemia, i loro vicini, anche solo per la spesa. Ci sono poi tante forme anche strutturate – in Italia c’è una grande ricchezza -: dalla Croce Rossa alla Protezione civile, alle stesse attività della Caritas; penso ai gruppi di volontari che curano l’animazione nei reparti degli ospedali pediatrici. Penso a chi è impegnato nel servizio delle Cappellanie ospedaliere e le opportunità sono veramente molte.

Fra Andrea Dovio

Lei, fra Andrea, è un francescano. San Francesco può essere di ispirazione anche per quanto riguarda il rapporto con la malattia e con la persona malata?

Certamente, sappiamo dal testamento del Santo che la sua conversione coincide con un incontro, un incontro provvidenziale voluto da Dio, secondo lo stesso Francesco, con i lebbrosi. “Il Signore mi condusse tra i lebbrosi e io feci misericordia con essi” e nel tornare, dice san Francesco, “ciò che era amaro mi si tramutò in dolcezza di spirito e di corpo”. Ecco per Francesco l’incontro con la sofferenza dei lebbrosi diventa l’occasione di una conversione che è un rovesciamento dei gusti. Trova gioia dove prima provava amarezza, scopre l’amore di Dio e la pienezza della felicità dove prima vedeva soltanto fallimento e disperazione. Poi c’è un episodio molto bello, raccontato nel venticinquesimo capitolo dei Fioretti, che parla proprio della cura di Francesco per un lebbroso che era un paziente, diremmo, particolarmente difficile e ostinato. E si vede anche la sua competenza nel preparare un bagno con erbe odorifere, spogliare il paziente, lavarlo e insieme la sua tenerezza nell’accogliere le paure e la sofferenza di quest’uomo fino a ottenerne una guarigione fisica e morale. E lo stesso Fioretto ci ricorda che Francesco, nel mandare i frati per il mondo, ordinava loro che servissero i lebbrosi per amore di Cristo, così come il noviziato dell’Ordine, quando viene istituito su richiesta della Santa Sede, prevede per chi entra, per chi sta facendo il cosidetto anno della prova, il servizio nei lebbrosari, le periferie esistenziali dell’epoca.

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