Chiesa Cattolica – Italiana

Francesco: siate preti vicini alla gente non da “laboratorio teologico”

Alessandro De Carolis – Città del Vaticano

È una questione di radici, la fede. Soprattutto se quelle radici portano le stigmate della resilienza di chi ha perseverato nel Vangelo anche in mezzo all’inferno. Le radici quindi custodiscono la parte viva della fede, lontana dalla sclerosi della mondanità spirituale, che può intaccarla e inaridirla. La metafora dell’albero è quella che Francesco usa con la comunità del Collegio Pio Romeno, ricevuta in udienza per gli 85 anni di fondazione.

Radici per nutrirsi non per “arrampicarsi”

Lo spunto il Papa lo trae dalle parole di Ioan Ploscaru, vescovo di Lugoj – scampato alla morte a differenza degli altri sette confratelli vescovi uccisi dalla persecuzione comunista e beatificati dal Papa due anni fa a Blaji – ma finito in carcere per 15 anni. Monsignor Ploscaru, ha indicato il Papa, è stato una delle radici della Chiesa romena di cui oggi, ha detto ai presenti, voi siete il “frutto”. Che deve guardarsi però da una insidia:

Cari amici, senza alimentare le radici ogni tradizione religiosa perde fecondità. Si verifica infatti un processo pericoloso: con il passare del tempo ci si focalizza sempre più su sé stessi, sulla propria appartenenza, perdendo il dinamismo delle origini. Allora ci si concentra su aspetti istituzionali, esteriori, sulla difesa del proprio gruppo, della propria storia e dei propri privilegi, perdendo, magari senza accorgersene, il sapore del dono.

Ed è in questa condizione, evidenzia il Papa, che si rischia di appassire tra arrivismi, scalate e ricerca di piaceri personali.

L’atteggiamento per arrampicarsi, per avere potere, per avere denaro, per avere fama, per essere comodi, per far carriera: questo è voler crescere senza le radici (…) Alle radici si va per prendere la forza, prendere il succo e continuare a crescere. Non si può vivere nelle radici e non si può vivere nell’albero senza le radici. La tradizione è un po’ il messaggio che noi riceviamo dalle radici: è quello che ti dà la forza per andare avanti, oggi, senza ripetere le cose di ieri, ma con la stessa forza della prima ispirazione.

Non trattenere nulla per sé

Una responsabilità degli eredi di quelle radici è quella, afferma Francesco, di “attualizzarle”, pena “una sterile ripetizione del passato”. Questo, sostiene il Papa, “è il segreto della fecondità”, ben conosciuto ad esempio dal cardinale Mureşan, 91 anni fra pochi giorni, citato come esempio di quell’epoca di coraggio, “di pastori poveri di cose, ma ricchi di Vangelo”, che seppero ricostruire la fibra della Chiesa romena una volta usciti dalle catacombe della persecuzione.

Siate così, apostoli gioiosi della fede che avete ereditato, disposti a non trattenere nulla per voi stessi e pronti a riconciliarvi con tutti, a perdonare e a tessere unità, superando ogni livore e vittimismo. Allora anche il vostro seme sarà evangelico e porterà frutto.

Il terreno e il dialetto

Dunque, “se le radici sono ben innaffiate”, l’albero cresce bene e non rischia di essere intaccato “dal virus della mondanità spirituale”. Ma, avverte Francesco, bisogna badare anche al “terreno”, quello “buono della fede”, lavorato “dai vostri nonni, dai vostri genitori”. Perché la fede, ripete ancora una volta, non ha bisogno di parole complicate ma dell’immediatezza della lingua semplice di tutti i giorni.

Per favore, state attenti a non diventare chierici di Stato. Siate pastori di popolo (…) Per favore, non dimenticare il popolo dal quale voi venite. Non siate preti di laboratorio teologico: no, no! Preti dal popolo, con l’odore del popolo, con l’odore del gregge. Ho detto che il Vangelo non si annuncia con parole complicate ma in dialetto.

Il pensiero di chiusura è per gli studenti di lingua araba appartenenti all’ex-Collegio Sant’Efrem che da una decina d’anni formano un’unica comunità col Collegio Pio Romeno. “La vostra condivisione di vita – raccomanda Francesco – non deve essere sentita come una diminuzione dei rispettivi tratti distintivi”, né i collegi nazionali, orientali e latini “devono essere delle ‘enclavi’ entro cui rientrare dopo la giornata di studi per vivere come se si fosse in patria, ma dei laboratori di comunione fraterna, dove sperimentare l’autentica cattolicità, l’universalità della Chiesa”, per “non venire risucchiati in particolarismi che frenano l’evangelizzazione”.

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