Chiesa Cattolica – Italiana

Donarsi per amore: la storia delle tre religiose venerabili morte di Ebola

Benedetta Capelli – Città del Vaticano

Ci sono fili che improvvisamente si dipanano e altri che si intrecciano con la storia e il dolore di questi giorni. L’Italia è ancora colpita dall’uccisione nella Repubblica Democratica del Congo, dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo. Vite giovani già indirizzate al bene, alla speranza, che hanno scelto di esserci al fianco di chi soffre e di non voltarsi dall’altra parte. C’è un tempo di pandemia che limita e opprime la quotidianità e che assomiglia a tante altre pandemie ancora minacciose in angoli lontani del mondo, come l’Ebola dalla quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità mette oggi in guardia per i nuovi casi registrati in Guinea e ancora in Repubblica Democratica del Congo. Il Covid -19 ci ha pure consegnato la dedizione e la passione, spesso pagata con la vita, di dottori, infermieri e personale sanitario che Papa Francesco ha definito “santi della porta accanto”.

Accanto ai vulnerabili

Tanti fili che si ritrovano stretti e uniti nella storia difficile e meravigliosa di tre missionarie italiane, nei giorni scorsi dichiarate venerabili dalla Chiesa. Suor Floralba Rondi, suor Clarangela Ghilardi e suor Dinarosa Belleri forse oggi sarebbero nelle corsie degli ospedali di Bergamo, dove è nata la Congregazione delle Suore delle Poverelle, fondate nel 1869 dal sacerdote Luigi Maria Palazzolo, pronte a combattere il coronavirus. Nel 1995 invece erano nella Repubblica Democratica del Congo, a Kikwit, 400 km dalla capitale Kinshasa. La loro missione, iniziata nel Paese africano nel 1952, era quella di assistere i malati di Ebola, una febbre emorragica molto contagiosa. Si trovavano nell’epicentro dell’epidemia, lavoravano nell’ospedale che contava allora 11 padiglioni con 400 posti letto, ma in periodi di emergenza, si accoglievano mille malati.

Suor Dinarosa Belleri

Fedeli all’amore per il prossimo

Potevano scappare e invece restarono fedeli alla strada indicata dal fondatore: la dedizione ai più poveri, “in servizio degli ammalati anche in tempo di malattie contagiose”. Non si mossero e anzi altre consorelle raggiunsero Kikwit dove il virus Ebola colpì 220 persone, provocandone la morte di 176. In pochi mesi si spensero anche sei Suore poverelle: le tre venerabili e suor Danielangela Sorti, suor Annelvira Ossoli e suor Vitarosa Zorza, per le quali si attende a breve l’analogo riconoscimento delle virtù eroiche. “Martiri della carità”: è la definizione che spesso accompagna la storia di queste missionarie italiane che oggi riposano nella terra da loro molto amata. La postulatrice della loro causa di beatificazione è suor Linadele Canclini:  

Ascolta l’intervista a suor Linadele Canclini

R. – Da quando è scoppiata la pandemia, noi come Congregazione, ma anche da parte di molti, abbiamo sentito salire l’invocazione alle sei consorelle morte per Ebola proprio perché loro avevano vissuto in prima persona l’esperienza del contagio, servendo gli ammalati, aiutando gli altri, quindi si è intensificato il ricordo di queste consorelle chiedendo loro di intercedere presso il Signore proprio per la fine di questa pandemia a livello mondiale.

Lei ha studiato a fondo la vita di queste sue consorelle, qual è il tratto che emerge fortemente nella loro vita

R. – La straordinarietà nella quotidianità. Conoscendo capillarmente la vita di ciascuna di queste sei sorelle, trovo una dedizione di amore incondizionata dal primo giorno della loro missione in Congo, anche prima ovviamente, una dedizione totale nel quotidiano, straordinaria nell’ordinarietà che le ha portate, quando è scoppiata Ebola, ad agire, a dedicarsi, chi in un modo o chi un altro. La prima suora che è morta (suor Floralba Rondi – ndr) – mentre venivano portati i malati in ospedale perché già c’era Ebola che serpeggiava – andava ad aiutare tutti. Il personale la sconsigliava, le diceva che era grave, vomitava, perdeva sangue. Lei rispondeva che era suo compito soccorrere i malati. Poi la superiora provinciale, che sapendo di questa suora malata era partita immediatamente, percorrendo le strade impervie del Congo, arrivando a mezzanotte per assistere lei e le altre due suore che pure erano in ospedale e si erano dedicate totalmente ai malati. C’era anche una consorella che aveva fatto un viaggio da Kinshasa arrivando a Kikwit perché voleva aiutare le suore che erano stanche, che avevano bisogno di un supporto. Un’altra che era a Kinshasa, sentendo del dilagare del virus disse che conosceva il posto e voleva portare dei medicinali. Il personale di Kinshasa chiese in ginocchio a suor Dinarosa Belleri di non partire perché là si trovava la morte. “Ma io parto”, rispose, ed è partita cantando, poi è morta. Questo per dire che sono accorse come sarebbero accorse ogni giorno, ogni sera, ogni notte per aiutare qualsiasi malato anche i malati di Ebola.

In quei giorni ci fu uno scambio intenso di messaggi tra l’Italia e il Congo, con le consorelle preoccupate per le suore che combattevano contro il virus…

R. – Prima del 1995 non c’era il funzionamento neanche delle linee telefoniche con il Congo, allora da Bergamo abbiamo avuto la fortuna di avere installato un fax in collegamento con Kinshasa che a sua volta era in collegamento con Kikwit. Abbiamo una documentazione di circa 200 pagine, eravamo informate ogni ora di quello che stava accadendo. Io ho ascoltato molti testimoni prima della causa (di beatificazione – ndr) in via informale e durante la causa in via ufficiale come postulatrice, e tutti i testimoni hanno detto la stessa frase: “Non c’è amore più grande che dare la vita per coloro che si amano”. Per loro erano tutti i congolesi – che chiamavano “fratelli” – i nostri fratelli, non c’è amore più grande che dare la vita per il fratello a cui si è mandate. Questa frase è risuonata in tutte le testimonianze.

Che ricordo hanno lasciato in Congo queste sue consorelle?

R. – Innanzitutto una testimonianza evangelica essenziale, semplice ma essenziale e fortissima, radicale, e poi un ricordo continuo. Io mi sono recata lì varie volte dal 2009 al 2016 e lì dicevano “le nostre suore”. È un ricordo incancellabile.

Cosa significa per la vostra famiglia religiosa avere queste consorelle oggi venerabili?

R. – E’ una gioia grande ma soprattutto è un incitamento a vivere nel nostro quotidiano lo spirito del fondatore Luigi Maria Palazzolo, è un richiamo fortissimo che nel mondo di oggi si è tentati di perdere. Queste suore che hanno vissuto la straordinarietà del carisma del fondatore spinge noi consorelle a vivere quanto il Palazzolo ci ha detto e continua a ripeterci. A me sinceramente arrivano le congratulazioni delle consorelle, di tanta gente, ma sono io che devo ringraziare il Signore che mi ha concesso di vivere questa esperienza di studio e ricerca a contatto con persone che definisco eroiche e sante. E’ stato un dono per me fare questo lavoro, non un merito ma un dono che ho ricevuto. Le conoscevo tutte personalmente, le conoscevo come ci si conosce tra consorelle, non conoscevo tutta la loro vita precedente in Congo con i vari sacrifici compiuti in tempi difficili, non conoscevo la generosità massima dalla loro donazione perché pur avendole viste, anche in Congo, un conto è vederle di passaggio, un conto è sentire la loro straordinarietà nella quotidianità.

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