Desmond Tutu: la”forza della pace” è la sua eredità

Vatican News

Andrea De Angelis – Città del Vaticano 

“Non abbiamo negato il nostro passato, abbiamo guardato la bestia negli occhi”. Così l’arcivescovo Desmond Tutu, morto il 26 dicembre all’età di 90 anni, uno dei simboli della lotta all’apartheid, parlava dell’impegno profuso alla guida della Commisione per la verità e la riconciliazione. Istituita nel 1994 per volere del presidente Nelson Mandela, fu presieduta proprio dall’arcivescovo per volere dello stesso Capo di Stato sudafricano. 

Ascolta il servizio con la voce dell’arcivescovo Tutu

Un uomo di pace

Il 16 ottobre 1984, monsignor Tutu venne premiato con il Nobel per la Pace. Il comitato del più noto premio internazionale citò il suo “ruolo come figura unificante nella campagna per risolvere il problema dell’apartheid in Sudafrica”. Due anni dopo, divenne la prima persona di pelle nera a guidare la Chiesa Anglicana in Sudafrica: era il 7 settembre 1986. L’arcivescovo è stato un uomo di pace, servitore di Cristo e ispirato anche al concetto africano di ubuntu, che indica una visione della società nella quale ogni persona è chiamata a svolgere un ruolo importante, con una naturale attenzione all’altro e, di conseguenza, alla promozione e al mantenimento della pace. 

Uguaglianza e riconciliazione 

Desmond Tutu era “al servizio del Vangelo, attraverso la promozione della uguaglianza razziale e della riconciliazione nel suo Sudafrica”. In questo modo il Papa, in un telegramma al nunzio apostolico nel Paese africano, monsignor Peter Wells, e a firma del cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, ha ricordato  l’arcivescovo anglicano. Francesco ha espresso tutta la sua vicinanza alla famiglia di Tutu, “affidandone l’anima alla amorevole misericordia di Dio, invocando le benedizioni divine di pace e di consolazione nel Signore Gesù su tutti coloro che piangono la sua scomparsa nella sicura e certa speranza della resurrezione”. Il Papa lo aveva ricordato nella enciclica Fratelli tutti tra “i fratelli non cattolici” che lo avevano motivato “nella riflessione sulla fraternità universale”.  

Una settimana di lutto

In Sudafrica è iniziata da lunedì scorso una settimana di lutto. Graca Machel, vedova del presidente Nelson Mandela, ha definito la scomparsa dell’arcivescovo come “la perdita di un fratello”, aggiungendo che Tutu “è l’ultimo di una generazione eccezionale di leader che l’Africa ha generato e donato al mondo”. “Ha usato magistralmente la sua posizione di ecclesiastico per mobilitare i sudafricani, gli africani e la comunità internazionale contro le brutalità e l’immoralità del governo dell’apartheid”. Le campane della Cattedrale di San Giorgio suoneranno quotidianamente per dieci minuti a mezzogiorno fino a venerdì, con la richiesta aa tutti di interrompere le attività giornaliere per rivolgere una preghiera e un pensiero a Tutu. Le spoglie dell’arcivescovo saranno portate nella Cattedrale di San Giorgio a Città del Capo venerdì 31 dicembre, alla vigilia del funerale al quale, a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia, potranno partecipare non più di cento fedeli. 

“Non c’è futuro senza perdono”

Tra i tanti che lo hanno conosciuto, anche la Comunità di Sant’Egidio ricorda l’arcivescovo sudafricano, individuando nella “forza della pace” la sua eredità. Numerosi esponenti della Comunità lo hanno incontrato nel corso degli anni. Tra loro c’è anche Leone Gianturco, della Sezione Internazionale di Sant’Egidio, che nell’intervista a Radio Vaticana – Vatican News ricorda quando si recò a Roma,  il 26 maggio del 1988, per inaugurare la ‘Tenda di Abramo’, la prima casa della Comunità dedicata ai profughi.

Ascolta l’intervista a Leone Gianturco

Gianturco, partiamo proprio dal ricordo personale che ha dell’arcivescovo Tutu. 

La sua forza morale è indimenticabile, lo è la sua fede cristiana. Ricordo che quando venne a Trastevere ad inaugurare la ‘Terra di Abramo”, capii subito che davanti avevo qualcuno che parlava con la Parola di Dio. Tutu aveva incarnato la sua vocazione, il suo servizio al Vangelo nell’azione contro ogni ingiustizia. Era una personalità che faceva un po’ tremare i polsi, ma ti metteva anche a tuo agio perché era molto umano. 

Un’umanità che emerse anche quando, alla guida della Commissione per la verità e la riconciliazione, disse che il solo ascoltare gli atroci racconti di quanto commesso negli anni dell’apartheid, provocava in lui una grande sofferenza. Nonostante questo seppe proseguire nella ricerca della verità, per favorire appunto la riconciliazione… 

Sì, lui in qualche modo radicò quella umanità in una fede profonda. Quando vinse il Nobel per la Pace era noto per la sua lotta all’apartheid, in qualche modo divenne poi anche una figura scomoda perché era contro le uccisioni dei collaborazionisti neri da parte dei neri stessi. Aveva superato ogni barriera anche grazie alla fede profonda in una vita diversa, con un popolo in conflitto da condurre alla riconciliazione. Alla guida di quella Commissione intraprese un percorso difficile, ripetendo che non c’è futuro senza perdono. Per perdonare, si doveva passare nella sofferenze di quei racconti terribili. Quando si recò in Ruanda si mise a piangere davanti a quel genocidio, era una persona che viveva in modo diretto, anche audace i drammi del suo tempo. Nella fede trovava la forza per affrontare tutto questo. 

Uno dei suoi insegnamenti consiste proprio in questo, in fondo è molto più semplice giudicare che favorire la riconciliazione. Una lezione che vale ancora oggi?

Certamente, a noi come Comunità di Sant’Egidio colpì proprio questa sua empatia, questo rifiutare la banalizzazione, diciamo così, del perdono. Non si può perdonare a basso prezzo, si deve passare dallo sdegno che ciascuno di noi prova quando è ferito, dal racconto, dalla ricerca della verità. Sono tutti passaggi non semplici, ma che permettono di arrivare alla vera riconciliazione. Tutu, nella sua profonda umanità, aveva compreso anche il problema della pena di morte ed è sempre stato in prima linea nel condannarla. Andava a trovare i condannati a morte, proprio perché per lui era paradossale l’idea che una giustizia facesse uccidere con un atto violento chi aveva commesso un atto violento. Il perdono era invece il percorso che permetteva a chi era schiavo dell’odio di ammettere le proprie colpe per poi superarle. 

Il Papa nel telegramma di cordoglio ha parlato del contributo di Tutu per favorire l’uguaglianza razziale. Anche questo aspetto è di grande attualità?

Sì, la sua lezione è forte perché, vivendo la disugualianza razziale, ha lottato per il superamento del razzismo a trecentosessanta gradi. Ci ha insegnato che ogni forma di discriminazione è sbagliata; il considerare l’altro diverso da sé è dannoso, è stupido, è contro ogni logica cristiana e umana. Tutu al funerale di Mandela si indignò perché c’erano pochi di quei bianchi che avevano lavorato accanto al presidente. Voleva il loro coinvolgimento, perché Tutu era davvero contro ogni tipo di razzismo. Questa è la forza della sua testimonianza. Prese posizione, ma non era di parte, nel senso che la sua unica, sola parte era un mondo di uguaglianza.