Dalla crisi non si esce da soli, si esce correndo rischi e prendendo l’altro per mano

Vatican News

di Bernarda Llorente

Fuori, il caldo torrido non sembra scoraggiare le migliaia di turisti che, in pieno sole, si dividono in lunghe file per entrare in Vaticano. A pochi metri da lì, a Santa Marta, il suo intenso programma si sta realizzando passo dopo passo. Alcuni movimenti sembrano annunciare che sta per arrivare. Francesco, Sua Santità, il Papa argentino, uno dei leader che oggi detta l’agenda sociale e politica del mondo, cammina con un sorriso radioso. Sembra essersi ripreso. Consapevole di tutte le trasformazioni attuate durante i suoi nove anni di pontificato e con uno sguardo lungimirante sul futuro dell’umanità, della fede e del bisogno di nuove risposte. Mentre entriamo insieme nella stanza dove tutto è pronto per l’intervista con l’agenzia stampa internazionale Télam, che durerà un’ora e mezza, so che questo 20 giugno sto vivendo un momento eccezionale e unico.

Francesco, lei è stato una delle voci più importanti in un periodo di grande solitudine e paura nel mondo durante la pandemia. Ha saputo descriverlo come i limiti di un mondo in crisi in campo economico, sociale e politico. E in quell’occasione ha detto una frase: “Da una crisi non si esce mai uguali, si esce migliori o peggiori”. Come pensa che ne stiamo uscendo? Dove siamo diretti?

Non mi sta piacendo. In alcuni settori c’è stata una crescita, ma in generale non mi piace perché è diventata selettiva. Guarda, il fatto stesso che l’Africa non abbia i vaccini o abbia le dosi minime significa che la salvezza della malattia è stata dosata anche in base ad altri interessi. Il fatto che l’Africa abbia così tanto bisogno di vaccini indica che qualcosa non ha funzionato.  Quando dico che non si esce mai uguali, è perché la crisi inevitabilmente ti cambia. Inoltre, le crisi sono momenti della vita in cui si compie un passo avanti. C’è la crisi dell’adolescenza, quella della maggiore età, quella dei quarant’anni. La vita segna le tappe con le crisi. Perché la crisi ti mette in movimento, ti fa ballare. E bisogna saperle affrontare, perché se non lo fai, le trasformi in conflitto. E il conflitto è qualcosa di chiuso, cerca la soluzione al suo interno e si autodistrugge. Invece, la crisi è necessariamente aperta, ti fa crescere. Una delle cose più serie della vita è saper vivere una crisi, non con amarezza. Ebbene, come abbiamo vissuto la crisi? Ognuno ha fatto quello che ha potuto. Ci sono stati degli eroi, posso parlare di quelli che ho avuto più vicini qui: medici, infermieri, infermiere, sacerdoti, suore, laici, laiche che hanno davvero dato la vita. Alcuni sono morti. Credo che in Italia ne siano morti più di sessanta. Dare la vita per gli altri è una delle cose emerse in questa crisi. Anche i sacerdoti si sono comportati bene, in generale, perché le chiese erano chiuse, ma hanno telefonato alla gente. C’erano giovani sacerdoti che chiedevano agli anziani di che cosa avessero bisogno al mercato e facevano la spesa per loro. Cioè, le crisi ti costringono a essere solidale perché tutti sono in crisi. Ed è lì che si cresce.

Molti pensavano che la pandemia avesse posto dei limiti: all’estrema disuguaglianza, alla noncuranza verso il riscaldamento globale, all’individualismo esacerbato, al malfunzionamento dei sistemi politici e di rappresentanza. Tuttavia, ci sono settori che insistono nel ricostruire le condizioni pre-pandemiche.

Non possiamo tornare alla falsa sicurezza delle strutture politiche ed economiche che avevamo prima. Così come dico che non si esce dalla crisi uguali, ma si esce migliori o peggiori, dico anche che dalla crisi non si esce da soli. O ne usciamo tutti o nessuno. La presunzione che un singolo gruppo possa uscire dalla crisi sul momento ti può dare una salvezza, ma è una salvezza parziale, economica, politica o di alcuni settori del potere. Ma non se ne esce completamente. Resti imprigionato dalla scelta di potere che hai fatto. Ad esempio, l’hai trasformata in un affare o ti sei rafforzato culturalmente durante la crisi. Usare la crisi a proprio vantaggio significa uscirne male e, soprattutto, uscirne da soli. Dalla crisi non si esce da soli, si esce correndo rischi e prendendo l’altro per mano. Se non lo fai, non puoi uscirne. Quindi, questo è l’aspetto sociale della crisi. È una crisi di civiltà. E si dà il caso che anche la natura sia in crisi. Ricordo che qualche anno fa ho ricevuto diversi capi di governo e capi di Stato dei Paesi polinesiani. E uno di loro ha detto: “Il nostro Paese sta pensando di comprare terre a Samoa, perché tra 25 anni forse non esisteremo più perché il mare si sta alzando tanto”. Non ce ne rendiamo conto, ma c’è un detto spagnolo che deve farci riflettere: Dio perdona sempre. Siate certi che Dio perdona sempre e noi uomini perdoniamo di tanto in tanto. Ma la natura non perdona mai. La fa pagare. Usi la natura, e lei ti travolge. Un mondo surriscaldato ci allontana anche dalla costruzione di una società giusta e fraterna. Ci sono la crisi, la pandemia e il famoso covid. Quando ero studente, il massimo che ti provocavano i virus “corona” era il raffreddore. Ma poi sono mutati ed è successo quello che è successo. È molto curiosa la mutazione dei virus, perché siamo di fronte a una crisi virale, ma anche a una crisi mondiale. Una crisi mondiale nel nostro rapporto con l’universo. Non viviamo in armonia con la creazione, con l’universo. E lo prendiamo a schiaffi in continuazione. Usiamo male le nostre forze. Ci sono persone che non immaginano il pericolo che l’umanità corre oggi con questo surriscaldamento e questa manipolazione della natura. Vi racconto un’esperienza personale: nel 2007 ero nel gruppo di redazione del Documento di Aparecida e allora arrivavano le proposte dei brasiliani che parlavano di cura della natura. “Ma questi brasiliani, cosa hanno in testa?”, mi chiedevo all’epoca, non ne capivo nulla. Ma a poco a poco mi sono svegliato ed è stato allora che ho sentito l’urgenza di scrivere qualcosa. Anni dopo, quando mi sono recato a Strasburgo, il presidente François Hollande ha mandato a ricevermi il suo ministro dell’ambiente, che all’epoca era Ségolène Royale. A un certo punto mi ha chiesto: “È vero che sta scrivendo qualcosa sull’ambiente?”. Quando ho risposto di sì, mi ha chiesto: “Per favore, lo pubblichi prima della Conferenza di Parigi”. Così ho incontrato di nuovo gli scienziati che mi hanno consegnato una bozza, poi ho incontrato i teologi che mi hanno consegnato un’altra bozza, ed è così che è nata la “Laudato si'”. È stata un’esigenza per creare la consapevolezza che stiamo prendendo a schiaffi la natura. E la natura la farà pagare… La sta facendo pagare.

Nell’enciclica “Laudato si'” lei avverte che si parla spesso di ecologia, ma separandola dalle condizioni sociali e di sviluppo. Quali sarebbero queste nuove regole in termini economici, sociali e politici, nel mezzo di quella che lei ha definito una crisi di civiltà e con una Terra che per di più sta dicendo “non ce la faccio più”?

È tutto unito, è armonioso. Non puoi pensare alla persona umana senza la natura e non pensare alla natura senza la persona umana. È come quel passo della Genesi: “Siate fecondi, moltiplicatevi e soggiogate la terra”. Soggiogare significa entrare in armonia con la Terra per renderla feconda. E noi abbiamo questa vocazione. C’è un’espressione degli aborigeni dell’Amazzonia che amo: “il vivere bene”. Hanno questa filosofia del vivere bene, che non ha nulla a che vedere con il nostro porteño “divertirsi” o con la “dolce vita” italiana. Per loro si tratta di vivere in armonia con la natura. È necessaria qui una scelta interiore da parte delle persone e dei Paesi. Una conversione, diremmo noi. Quando mi dicevano che la “Laudato si'” era una bella enciclica sull’ambiente, rispondevo che non lo era, che era “un’enciclica sociale”. Perché non possiamo separare il sociale dall’ambiente. La vita di uomini e donne si sviluppa all’interno di un ambiente. Mi viene in mente un detto spagnolo, spero non troppo guarango, che dice “chi sputa al cielo, gli cade in testa”. Il maltrattamento della natura è un po’ questo. La natura la fa pagare. Ripeto: la natura non perdona mai, ma non perché sia vendicativa, bensì perché noi mettiamo in moto processi di degenerazione che non sono in armonia con il nostro essere. Qualche anno fa sono rimasto raggelato quando ho visto la foto di una nave che aveva superato per la prima volta il Polo Nord. Il Polo Nord navigabile! Cosa significa? Che i ghiacci si stanno distruggendo, si stanno dissolvendo, a causa del riscaldamento. Quando si vedono queste cose, dobbiamo mettere un freno.  E sono i giovani a notarlo di più. Noi adulti non ci siamo abituati male, diciamo “non è un problema” o semplicemente non capiamo.

GIOVANI, POLITICA E DISCORSO D’ODIO

I giovani, come sottolinea, sembrano avere una maggiore consapevolezza ecologica, ma spesso sembra essere segmentata. Oggi vediamo meno impegno politico e anche quando si tratta di votare, la partecipazione è molto bassa tra gli under 35. Cosa direbbe a questi giovani? Come aiutarli a ricostruire la loro speranza?

Hai toccato un punto difficile, ovvero il disimpegno politico dei giovani: perché non si impegnano in politica, perché non se la giocano? Perché sono come scoraggiati. Hanno visto – non dico tutti, per carità – situazioni di accordi mafiosi e di corruzione. Quando i giovani di un Paese vedono, come si suol dire, che “ci si vende perfino la madre” pur di fare un affare, allora la cultura politica si abbassa. Ed è per questo che non vogliono mettersi in politica. Eppure abbiamo bisogno di loro perché sono loro a dover proporre la salvezza della politica universale. E perché la salvezza? Perché se non cambiamo il nostro atteggiamento nei confronti dell’ambiente, andiamo tutti a fondo. A dicembre abbiamo avuto un incontro scientifico-teologico su questa situazione ambientale. E ricordo che il direttore dell’Accademia Italiana delle Scienze ha detto: “Se non si cambia, mia nipote che è nata ieri dovrà vivere tra 30 anni in un mondo inabitabile”. Per questo dico ai giovani che non si tratta solo di protestare, ma che devono anche trovare il modo di farsi carico dei processi che ci aiuteranno a sopravvivere.

Pensa che parte della frustrazione di alcuni giovani fa sì che siano sedotti dai discorsi di odio e dalle opzioni politiche estreme?

Il processo di un Paese, il processo di sviluppo sociale, economico e politico, necessita di una continua rivalutazione e di un continuo scontro con gli altri. Il mondo politico è questo scontro di idee, di posizioni, che ci purifica e ci fa andare avanti insieme. I giovani devono imparare questa scienza della politica, della convivenza, ma anche della lotta politica che ci purifica dagli egoismi e ci fa progredire. È importante aiutare i giovani in questo impegno socio-politico e anche a non “farsi vendere una cassetta delle lettere”. Ma oggi credo che i giovani siano più svegli. Ai miei tempi non ci “vendevano una cassetta delle lettere”, ci vendevano la Posta Centrale. Oggi sono più svegli, più vivi. Ho molta fiducia nei giovani. “Sì, ma non vengono a Messa!”, mi dice un sacerdote. Rispondo che dobbiamo aiutarli a crescere e accompagnarli. Poi Dio parlerà a ciascuno di loro. Ma dobbiamo lasciarli crescere. Se i giovani non sono i protagonisti della storia, siamo fritti. Perché sono il presente e il futuro.

Qualche giorno fa ha parlato dell’importanza del dialogo intergenerazionale.

A questo proposito, vorrei dire una cosa che mi piace sempre sottolineare: dobbiamo ripristinare il dialogo tra giovani e anziani. I giovani devono dialogare con le loro radici e gli anziani devono rendersi conto che stanno lasciando un’eredità. Il giovane, quando incontra il nonno o la nonna, riceve linfa, riceve cose e le porta avanti. E l’anziano, quando incontra il nipote o la nipote, ha speranza. C’è un verso molto bello di Bernárdez, non so in quale poesia, che dice: “Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato”. Non dice “i fiori vengono da laggiù”. No, i fiori sono sopra. Ma questo dialogo dall’alto verso il basso, del prendere dalle radici e portare avanti, è il vero significato della tradizione. Mi ha colpito anche una frase del compositore Gustav Mahler: “La tradizione è la garanzia del futuro”. Non è un pezzo da museo. È ciò che ti dà vita, purché ti faccia crescere. Tutt’altra cosa è andare indietro, il che è un conservatorismo malsano. “Poiché si è sempre fatto così, non me la rischio per un passo avanti”, ragionano. Forse questo ha bisogno di ulteriori spiegazioni, ma io vado all’essenza del dialogo dei giovani con gli anziani, perché è da lì che nasce il vero significato della tradizione. Non è tradizionalismo. È la tradizione che ti fa crescere, è la garanzia del futuro.

I MALI DEL TEMPO

Francesco, lei descrive spesso tre mali del tempo: il narcisismo, lo scoraggiamento e il pessimismo. Come si combattono?

Le tre cose che ha citato – narcisismo, scoraggiamento e pessimismo – fanno parte della cosiddetta psicologia dello specchio. Narciso, naturalmente, guardava lo specchio. E questo guardarsi non è guardare avanti, ma tornare su se stessi e leccarsi continuamente la ferita. Quando, in realtà, ciò che ti fa crescere è la filosofia dell’alterità. Quando nella vita non c’è confronto, non si cresce. Le tre cose che hai citato sono quelle dello specchio: lo guardo per guardare me stesso e lamentarmi. Ricordo una suora che si lamentava tutto il tempo e in convento la chiamavano “Suor Lamentela”. Ebbene, ci sono persone che si lamentano continuamente dei mali del tempo. Ma c’è qualcosa che aiuta molto contro questo narcisismo, scoraggiamento e pessimismo: il senso dell’umorismo. È ciò che rende più umani. C’è una bellissima preghiera di San Tommaso Moro, che recito ogni giorno da più di 40 anni, che inizia chiedendo: “Dammi, Signore, una buona digestione e anche qualcosa da digerire”. Dammi il senso dell’umorismo, affinché io sappia apprezzare uno scherzo [“Dammi, o Signore, il senso dell’umorismo, concedimi la grazia di comprendere uno scherzo”, ndr]. Il senso dell’umorismo relativizza molto e fa molto bene. Va contro questo spirito di pessimismo, di “lamentela”. Era Narciso, vero? Torniamo allo specchio. Tipico narcisismo.

Già nel 2014 lei sosteneva che il mondo stava entrando in una terza guerra mondiale e oggi la realtà non fa che confermare le sue previsioni. La mancanza di dialogo e di ascolto è un fattore aggravante della situazione attuale?

L’espressione che ho usato allora è stata “guerra mondiale a pezzi”. Quello che accade in Ucraina lo viviamo da vicino e per questo ci preoccupiamo, ma pensiamo al Rwanda 25 anni fa, alla Siria 10 anni fa, al Libano con le sue lotte interne o al Myanmar oggi. Quello che stiamo vedendo sta accadendo da molto tempo. Una guerra, purtroppo, è una crudeltà al giorno. In guerra non si balla il minuetto, si uccide. E c’è un’intera struttura di vendita di armi che la favorisce. Qualcuno esperto di statistiche mi ha detto, non ricordo i numeri, che se non si fabbricassero armi per un anno, non ci sarebbe più fame nel mondo. Credo sia giunto il momento di ripensare il concetto di “guerra giusta”. Ci può essere una guerra giusta, c’è il diritto di difendersi, ma il modo in cui il concetto viene usato oggi deve essere ripensato. Ho affermato che l’uso e il possesso di armi nucleari è immorale. Risolvere le cose con una guerra significa dire no alla capacità di dialogo, di essere costruttivi, che gli uomini hanno. Questa capacità di dialogo è molto importante. Esco dalla guerra e passo al comportamento comune. Pensa a quando stai parlando con qualche persona e, prima che finisci, ti interrompe e ti risponde. Non sappiamo ascoltarci. Non permettiamo all’altro di dire la sua. Bisogna ascoltare. Ascoltare quello che dice, ricevere. Dichiariamo guerra prima, cioè interrompiamo il dialogo. Perché la guerra è essenzialmente una mancanza di dialogo. Quando sono andato a Redipuglia nel 2014, per il centenario della guerra del 1914, ho visto l’età dei morti nel cimitero e ho pianto. Quel giorno ho pianto. Il 2 novembre, qualche anno dopo, sono andato al cimitero di Anzio e quando ho visto l’età di quei ragazzi morti, ho di nuovo pianto. Non mi vergogno di dirlo. Che crudeltà. E quando è stato commemorato l’anniversario dello sbarco in Normandia, ho pensato ai 30.000 ragazzi rimasti senza vita sulla spiaggia. Aprivano le barche e ordinavano loro: “Scendere, scendere”, mentre i nazisti li aspettavano. È giustificabile, questo? Visitare i cimiteri militari in Europa aiuta a rendersene conto.

LA CRISI DELLE ISTITUZIONI

Forse gli organismi multilaterali stanno fallendo di fronte a queste guerre? È possibile raggiungere la pace attraverso di essi? È possibile cercare soluzioni comuni?

Dopo la Seconda Guerra Mondiale c’era molta speranza nelle Nazioni Unite. Non voglio offendere, so che ci sono ottime persone che lavorano, ma su questo punto non hanno il potere di imporsi. Contribuiscono sì a evitare guerre, e penso a Cipro, dove ci sono truppe argentine. Ma per fermare una guerra, per risolvere una situazione di conflitto come quella che stiamo vivendo oggi in Europa, o come quelle vissute in altre parti del mondo, non hanno alcun potere. Senza offesa. È solo che la costituzione di cui dispongono non danno loro potere.

Sono cambiati i poteri nel mondo e il peso di alcune istituzioni?

È una domanda che non voglio generalizzare troppo. Voglio metterla così: ci sono alcune istituzioni benemerite che sono in crisi o, peggio ancora, che sono in conflitto. Quelle in crisi mi fanno sperare in un possibile progresso. Ma quelle in conflitto sono impegnate a risolvere questioni interne. In questo momento servono coraggio e creatività. Senza questi due elementi, non avremo istituzioni internazionali che possano aiutarci a superare questi gravissimi conflitti, queste situazioni mortali di morte.

TEMPO DI BILANCIO

Nel 2023 ricorreranno 10 anni dalla sua elezione, un anniversario ideale per tracciare un bilancio: è riuscito a realizzare tutti i suoi obiettivi? Quali progetti sono ancora in sospeso?

Le cose che ho fatto non le ho inventate né sognate dopo una notte di indigestione. Ho raccolto tutto ciò che i cardinali avevano detto nelle riunioni pre-conclave che il prossimo Papa avrebbe dovuto fare. Poi abbiamo detto le cose che dovevano essere cambiate, i punti che dovevano essere toccati. Quello che ho messo in moto è stato quello che mi è stato chiesto. Non credo che ci sia nulla di originale da parte mia, ma ho avviato ciò che avevamo deciso tutti insieme. Ad esempio, la Riforma della Curia si è conclusa con la nuova Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium, con la quale, dopo otto anni e mezzo di lavoro e consultazioni, siamo riusciti a mettere in atto ciò che i cardinali avevano chiesto, cambiamenti che già si stavano mettendo in pratica. Oggi c’è un’esperienza di tipo missionario. Praedicate Evangelium, cioè “siate missionari”. Predicate la Parola di Dio. In altre parole, l’essenziale è uscire. Curioso: in quegli incontri c’era un cardinale che ricordava che nel testo dell’Apocalisse Gesù dice: “Sto alla porta e busso. Se qualcuno apre, io entrerò”. Poi ha detto: “Gesù continua a bussare, ma affinché lo lasciamo uscire, perché lo abbiamo imprigionato”. Questo è ciò che è stato chiesto in quelle riunioni di cardinali. E quando sono stato eletto, l’ho messo in moto. Dopo alcuni mesi, si sono tenute consultazioni fino alla stesura della nuova Costituzione. E nel frattempo si stavano apportando dei cambiamenti. Cioè non sono idee mie. Che sia chiaro. Sono le idee di tutto il Collegio Cardinalizio che ha chiesto questo.

Ma c’è un’impronta sua, c’è un’impronta della chiesa latinoamericana...

Questo sì.

In che modo questa prospettiva ha reso possibili i cambiamenti a cui assistiamo oggi?

La Chiesa latinoamericana ha una lunga storia di vicinanza al popolo. Se prendiamo le conferenze episcopali – la prima a Medellín, poi a Puebla, Santo Domingo e Aparecida – è stata sempre in dialogo con il popolo di Dio. E questo ha aiutato molto. È una Chiesa popolare, nel vero senso della parola. È una Chiesa del popolo di Dio, che è stata snaturata quando il popolo non ha potuto esprimersi e ha finito per essere una Chiesa di caporali, con gli agenti pastorali al comando. Il popolo si è espresso sempre più in ambito religioso e ha finito con l’essere protagonista della propria storia. C’è un filosofo argentino, Rodolfo Kush, che è quello che meglio ha colto cosa sia un popolo. Poiché so che mi ascolterete, vi consiglio di leggere Kush. È una delle grandi menti argentine, con libri sulla filosofia del popolo. In parte, questo è ciò che ha vissuto la Chiesa latinoamericana, anche se ha avuto tentativi di ideologizzazione, come lo strumento di analisi marxista della realtà per la Teologia della Liberazione. È stata una strumentalizzazione ideologica, un percorso di liberazione – mettiamola così – della Chiesa popolare latinoamericana. Ma una cosa sono i popoli, un’altra i populismi.

GLI INSEGNAMENTI DELLE PERIFERIE

Qual è la differenza tra i due?

In Europa devo spiegarlo sempre. Qui hanno un’esperienza molto triste del populismo. È appena uscito un libro, Sindrome 1933, che mostra come si è generato il populismo di Hitler. Per questo mi piace dire: non confondiamo il populismo con il popolarismo. Il popolarismo è quando il popolo porta avanti le proprie cose, esprime il suo pensiero nel dialogo ed è sovrano. Il populismo è un’ideologia che unisce il popolo, che cerca di raggrupparlo in un’unica direzione. E qui, quando parli loro di fascismo e di nazismo, capiscono cos’è il populismo. La Chiesa latinoamericana presenta in alcuni casi aspetti di sudditanza ideologica. Ci sono stati e continueranno ad esserci, perché questo è un limite umano. Ma è una Chiesa che ha saputo e sa esprimere sempre meglio la sua pietà popolare, ad esempio la sua religiosità e la sua organizzazione popolare. Quando scopri che per la festa patronale del Miracolo di Salta i Misachicos scendono da 3.000 metri, c’è lì un’entità religiosa che non è superstizione, perché si sentono identificati con essa. La Chiesa latinoamericana è cresciuta molto in questo senso. Ed è anche una Chiesa che ha saputo coltivare le periferie, perché la vera realtà si vede da lì.

Perché la vera trasformazione viene dalla periferia?

Mi ha colpito una conferenza di Amelia Podetti, una filosofa ora scomparsa, in cui diceva: “L’Europa ha visto l’Universo quando Magellano è arrivato al Sud”. In altre parole, dalla periferia più ampia, ha capito sé stessa. La periferia ci fa capire il centro. Si può essere d’accordo o meno, ma se vuoi sapere cosa prova un popolo, vai in periferia. Le periferie esistenziali, non solo quelle sociali. Vai dagli anziani pensionati, dai bambini, vai nei quartieri, nelle fabbriche, nelle università, dove si gioca il quotidiano. Ed è lì che si mostra il popolo. I luoghi in cui il popolo può esprimersi più liberamente. Per me questo è fondamentale. Una politica a partire dal popolo che non è populismo. Rispettare i valori del popolo, rispettare il ritmo e la ricchezza di un popolo.

Negli ultimi anni l’America Latina ha iniziato a mostrare alternative al neoliberalismo attraverso la costruzione di progetti popolari e inclusivi. Come vede l’America Latina come regione?

L’America Latina è ancora in questo lento cammino, di lotta, del sogno di San Martín e Bolívar, per l’unità della regione. È sempre stata vittima, e lo sarà sempre finché non si libererà del tutto dagli imperialismi sfruttatori. Tutti i Paesi hanno questo problema. Non voglio menzionarli perché sono così evidenti che tutti li vedono. Il sogno di San Martin e Bolivar è una profezia, quell’incontro di tutto il popolo latinoamericano, al di là delle ideologie, con la sovranità. È su questo che dobbiamo lavorare per raggiungere l’unità latinoamericana. Dove ogni popolo senta di avere la propria identità e, allo stesso tempo, abbia bisogno dell’identità dell’altro. Non è facile.

Lei indica un percorso basato su alcuni principi politici.

Ci sono quattro principi politici che mi aiutano, non solo per questo, ma anche per risolvere le cose nella Chiesa. Quattro principi che sono filosofici, politici o sociali se vogliamo. Li cito: “La realtà è superiore all’idea”, cioè, quando punti sugli idealismi, hai perso; è la realtà, toccare la realtà. “Il tutto è superiore alla parte”, cioè cercare sempre l’unità del tutto. “L’unità è superiore al conflitto”, in altre parole, quando privilegi i conflitti, danneggi l’unità. “Il tempo è superiore allo spazio”, pensa che gli imperialismi cercano sempre di occupare spazi, e la grandezza dei popoli è quella di avviare processi. Questi quattro principi mi hanno sempre aiutato a capire un Paese, una cultura o la Chiesa. Sono principi umani, di integrazione. E ci sono altri principi, più ideologici, di disintegrazione. Ma riflettere su questi quattro principi aiuta molto.

MANIPOLAZIONE DEI MEDIA

Lei è forse la voce più importante al mondo in termini di leadership sociale e politica. A volte sente che, dalla sua voce dissonante, ha la possibilità di cambiare molte cose?

Che sia dissonante, a volte l’ho sentito. Credo che la mia voce possa cambiare… ma non ci credo tanto perché questo può farti male. Dico quello che sento davanti a Dio, davanti agli altri, con onestà e con il desiderio che serva. Non mi preoccupa tanto il fatto che cambierà o non cambierà le cose. Mi preoccupo di più di dire le cose e di aiutarle a cambiare da sole. Credo che nel mondo, e soprattutto in America Latina, ci sia una grande forza per cambiare le cose con questi quattro principi che ho appena citato. Ed è vero che se parlo io, tutti dicono “il Papa ha parlato e ha detto questo”. Ma è anche vero che prendono una frase fuori dal contesto e ti fanno dire ciò che non intendevi dire. In altre parole, bisogna fare molta attenzione. Per esempio, con la guerra, c’è stata un’intera controversia per una mia dichiarazione su una rivista dei gesuiti: ho detto che “qui non ci sono né buoni né cattivi” e ho spiegato perché. Ma hanno preso questa dichiarazione da sola e hanno detto: “Il Papa non condanna Putin!”. La realtà è che lo stato di guerra è qualcosa di molto più universale, più serio, e non ci sono buoni e cattivi. Siamo tutti coinvolti e questo è ciò che dobbiamo imparare.

Il mondo è diventato sempre più diseguale e questo si riflette anche nei media che, grazie a una grande concentrazione imprenditoriale e alle piattaforme digitali e ai social network, stanno diventando sempre più potenti in termini di produzione di discorso. In questo contesto, quale pensa debba essere il ruolo dei media?

Io faccio mio il principio “la realtà è superiore all’idea”. Mi viene in mente un libro scritto dal filosofo Simone Paganini, docente all’Università di Aquisgrana, in cui parla della comunicazione e delle tensioni che esistono tra l’autore di un libro, il lettore e la forza del libro stesso. Sostiene che si sviluppa una tensione sia nella comunicazione che nella lettura del libro. E questo è fondamentale nella comunicazione. Perché, in qualche modo, la comunicazione deve entrare in un rapporto di sana tensione, che faccia riflettere l’altro e lo porti a rispondere. Se questo non c’è, è solo informazione. La comunicazione umana – e lui parla di giornalisti, comunicatori o altro – deve entrare nella dinamica di questa tensione. Dobbiamo essere consapevoli che comunicare significa impegnarci. E dobbiamo essere molto consapevoli della necessità di impegnarci bene. Per esempio, c’è l’obiettività. Comunico qualcosa e dico: “È successo questo, penso questo”. Qui mi metto in gioco e mi apro alla risposta dell’altro. Ma se comunico quello che è successo potandolo, senza dire che lo sto potando, sono disonesto perché non comunico una verità. Non si può comunicare una verità in modo obiettivo, perché se la sto comunicando, ci metto del mio. Ecco perché è importante distinguere “è successo questo e penso che sia questo”. Oggi, purtroppo, il “penso” porta a una distorsione della realtà. E ciò è molto grave.

Lei ha parlato in diverse occasioni dei peccati della comunicazione.

L’ho detto per la prima volta in una conferenza a Buenos Aires quando ero arcivescovo. Mi è venuto in mente di parlare dei quattro peccati della comunicazione, del giornalismo. In primo luogo, la disinformazione: dire ciò che mi fa comodo e tacere sul resto. No, di’ tutto, non puoi disinformare. In secondo luogo, la calunnia. Inventano cose e a volte distruggono una persona con una comunicazione. In terzo luogo, la diffamazione, che non è calunnia, ma è come attribuire a una persona un pensiero che ha avuto in un altro momento e che ora è cambiato. È come se a un adulto si portassero i pannolini sporchi di quando eri bambino. Ero un bambino e la pensavo così. È cambiato, ora è così. E per il quarto peccato ho usato la parola tecnica coprofilia, cioè l’amore per la cacca, l’amore per la sporcizia. Vale a dire, cercare di infangare, cercare lo scandalo per il gusto dello scandalo. Ricordo che il cardinale Antonio Quarracino diceva: “Non leggo quel giornale, perché faccio così e sgorga sangue”. È l’amore per lo sporco e il brutto. Credo che i media debbano stare attenti a non cadere nella disinformazione, nella calunnia, nella diffamazione e nella coprofilia. Il loro valore è quello di esprimere la verità. Dico la verità, ma sono io a esprimerla e ci metto del mio. Ma chiarisco bene ciò che è mio e ciò che è oggettivo. E lo trasmetto. Anche se a volte in quella trasmissione si perde un po’ di onestà, poi dal passaparola della trasmissione passi a un primo passo con Cappuccetto Rosso che scappa dal Lupo che vuole mangiarla e finisci, dopo la comunicazione, in un banchetto dove la nonna e Cappuccetto Rosso stanno mangiando il Lupo. Bisogna fare attenzione che la comunicazione non cambi l’essenza della realtà.

COMUNICAZIONE E POTERE

Che valore attribuisce alla comunicazione?

La comunicazione è qualcosa di sacro. È forse una delle cose più belle che un essere umano abbia. Comunicare è divino e bisogna saperlo fare con onestà e autenticità. Senza aggiungere cose di mia invenzione e non dirlo. “È successo questo. Penso che debba essere questo o lo interpreto così”, ma che sia chiaro che è il tuo pensiero. Oggi i media hanno una grande responsabilità didattica: insegnare alla gente l’onestà, insegnare a comunicare con l’esempio, insegnare a vivere insieme. Ma se ci sono media che danno l’impressione di avere in mano una granata per distruggere le persone – con la selezione della verità, con la calunnia, con la diffamazione o con il fango – questo non farà mai crescere un popolo. Chiedo che i media abbiano questa sana obiettività, il che non vuol dire che sia acqua distillata. Ribadisco: “Le cose stanno così e io la penso così”. E scendi nell’arena, ma che sia chiaro quello che pensi. Ciò è molto nobile. Ma se parli con il programma che t’impone un movimento politico, un partito, senza dire che è così, questo è ignobile e non è corretto. Il comunicatore, per essere un buon comunicatore, deve essere una persona corretta.

Molti media, dando priorità ai loro interessi, danno spazio a un’agenda di globalizzazione dell’indifferenza. Sono questi i temi che i media decidono di rendere visibili o di nascondere per motivi diversi.

Sì, quando a volte penso ad alcuni media che purtroppo non svolgono bene la loro missione, quando penso a queste cose della nostra cultura in generale, della cultura mondiale, che danneggiano la società stessa, mi viene in mente una frase della nostra filosofia che sembra pessimista, ma è la verità: “Dai che va tutto bene! Tutto è uguale, tanto laggiù all’inferno c’incontreremo” [frasi tratte dal tango Cambalache, ndr]. In altre parole, non importa cosa sia la verità e cosa no. Non importa se questa persona vince o perde. Tutto è uguale. Dai che va tutto bene! Quando questa filosofia viene diffusa dai media è disastrosa perché crea una cultura dell’indifferenza, del conformismo e del relativismo che danneggia tutti noi.

Alla tecnologia viene spesso attribuita una certa vita propria, come responsabile di mali che vengono commessi al di là del suo utilizzo. Come recuperare l’umanesimo in questo mondo tecnologico?

Una sala operatoria è un luogo in cui la tecnologia viene utilizzata al millimetro. Eppure, quanta attenzione viene posta in un intervento chirurgico con le nuove tecnologie. Perché c’è una vita in gioco di cui bisogna prendersi cura. Il criterio è questo: che la tecnologia abbia sempre presente che sta lavorando con vite umane. Bisogna pensare alle sale operatorie. Questa è l’onestà che dobbiamo sempre avere, anche nella comunicazione. Sono in gioco vite umane. Non possiamo fare le cose come se poi non accadesse nulla.

I PASTORI DEL POPOLO

È sempre stato un pastore, ma come trasmettere questa Chiesa di pastori, la Chiesa di strada che parla ai fedeli? Forse oggi la fede è diversa? Il mondo ha meno fede?  La fede si può recuperare?

Mi piace fare una distinzione tra pastori del popolo e chierici dello Stato. Un chierico di Stato è un ecclesiastico dei tribunali francesi, come Monsieur L’Abbé, e a volte noi sacerdoti siamo tentati di flirtare con il potere, ma non è questa la strada. La vera via è pascolare [il gregge]. Stare in mezzo al tuo popolo, davanti al tuo popolo e dietro al tuo popolo. Stare in mezzo per sentire bene il suo odore, per conoscerlo bene, perché sei stato preso da lì. Stare davanti al tuo popolo per a volte segnare il passo. E stare dietro al tuo popolo per aiutare quelli che sono rimasti indietro e per lasciare che cammini da solo per vedere dove sta andando, perché le pecore a volte sanno per intuito dove sta il pascolo. Il pastore è questo. Un pastore che è solo davanti al popolo non va. Deve essere coinvolto e partecipare alla vita del suo popolo. Se Dio ti mette a fare il pastore, è per fare il pastore, non per condannare. Dio è venuto qui per salvare, non per condannare. Lo dice San Paolo, non io. Salviamo le persone, non siamo troppo severi. A qualcuno non piacerà quello che sto per dire: c’è un capitello nella Basilica di Vèzelay, non ricordo se del 900 o del 1100. Si sa che, nell’epoca medievale, la catechesi si faceva con le sculture, con i capitelli. La gente li vedeva e imparava. E un capitello di Vèzelay che mi ha davvero colpito è quello di Giuda impiccato, con il diavolo che lo tira verso il basso e, dall’altra parte, un buon pastore che lo afferra e lo porta via con un sorriso ironico. Con questo insegna al popolo che Dio è più grande del tuo peccato, che Dio è più grande del tuo tradimento, che non devi disperare per i torti commessi, che c’è sempre qualcuno che ti porterà sulle sue spalle. È la migliore catechesi sulla persona di Dio, sulla misericordia di Dio. Perché la misericordia di Dio non è un dono che vi fa, è lui stesso. Non può essere altrimenti. Quando presentiamo questo Dio severo, che punta tutto sulla punizione, non è il nostro Dio. Il nostro Dio è il Dio della misericordia, della pazienza, il Dio che non si stanca di perdonare. Questo è il nostro Dio. Non quello che noi sacerdoti a volte sfiguriamo.

Se la società ascolta questo Dio e questo popolo che a volte non viene ascoltato, pensa che sarà possibile costruire un discorso diverso, alternativo al discorso egemonico?

Sì, certo. L’egemonia non è mai salutare. Vorrei parlare di una cosa prima di concludere: nella nostra vita liturgica, nel Vangelo, c’è la fuga in Egitto. Gesù deve fuggire, insieme a suo padre e sua madre, perché Erode vuole ucciderlo. I Magi e tutto il resto. Poi c’è la fuga in Egitto, che spesso pensiamo come abbiano fatto in carrozza e non tranquilli su un asinello. Due anni fa, un pittore piemontese ha pensato al dramma di un padre siriano in fuga con il figlio e ha detto: “Quello è San Giuseppe con il bambino”. Ciò che quell’uomo sta soffrendo è ciò che San Giuseppe ha sofferto in quel momento. È quel quadro lì, me lo ha regalato.

BERGOGLIO E FRANCESCO

Al di là dell’orgoglio di avere un Papa argentino, penso sempre a come lei si vede: come il Papa vede Bergoglio e come Bergoglio vedrebbe Francesco?

Bergoglio non avrebbe mai immaginato di finire qui. Mai. Sono arrivato in Vaticano con una valigetta, con i vestiti che avevo addosso e poco più. Inoltre, ho lasciato a Buenos Aires le prediche preparate per la Domenica delle Palme. Ho pensato: nessun Papa inizia il suo ministero la Domenica delle Palme, quindi tornerò a casa il sabato. In altre parole, non avrei mai immaginato che sarei stato qui. E quando vedo il Bergoglio di lì e tutta la sua storia, le fotografie parlano da sole. È la storia di una vita che è andata avanti con molti doni di Dio, molte mancanze da parte mia, molte posizioni non tanto universali. Nella vita si impara a essere universali, a essere caritatevoli, a essere meno cattivi. Credo che tutte le persone siano buone. In altre parole, vedo un uomo che ha camminato, che ha che ha preso una strada, con alti e bassi, e tanti amici lo hanno aiutato a continuare a camminare. Non ho mai camminato da solo nella mia vita. Ci sono sempre stati uomini e donne, a partire dai miei genitori, i miei fratelli – una è ancora viva – che mi hanno accompagnato. Non riesco a immaginarmi come una persona solitaria, perché non lo sono. Una persona che ha percorso la sua vita, che ha studiato, che ha lavorato, che è diventato sacerdote, che ha fatto quello che poteva. Non riesco a pensare a nessun altro modo.

E come guarderebbe Bergoglio il Papa?

Non so come lo guarderebbe. Penso che in fondo direbbe: “Poverino, che cosa ti è toccato! Ma non è così tragico essere papa. Si può essere un buon pastore.

Forse lo guarderei come lo guardiamo tutti: lo scoprirei.

Sì, forse. Ma non mi è venuto in mente di pormi questa domanda, di mettermi lì. Ci penserò.

Sente di essere cambiato molto da quando è Papa?

Alcune persone mi dicono che le cose che stavano germogliando nella mia personalità sono venute in superficie. Che sono diventato più misericordioso. Nella mia vita ho avuto periodi rigidi, in cui ho preteso troppo. Poi ho capito che non si può seguire quella strada, che bisogna saper guidare. È questa la paternità che ha Dio. C’è una canzone napoletana molto bella che descrive cosa sia un padre napoletano. Dice: “Il padre sa cosa ti succede, ma fa finta di non saperlo”. Questo saper aspettare gli altri è proprio di un padre. Sa cosa ti sta succedendo, ma fa in modo di farti andare da solo, ti aspetta come se nulla fosse. È un po’ quello che oggi criticherei di quel Bergoglio che, in qualche tappa, non sempre, come vescovo è stato un po’ più benevolo. Ma nella tappa da gesuita è stato molto severo. E la vita è molto bella con lo stile di Dio, di saper sempre aspettare. Sapere, ma fare finta di non sapere e lasciare che maturi. È una delle saggezze più belle che la vita ci regala.

La trovo bene, Francesco. Avremo Papa Francesco ancora per un po’?

Lasciamo che lo dica Lui lassù.