Chiesa Cattolica – Italiana

Dal Quirinale premio alla cultura dell’incontro: la storia di Maria Vittoria Sebastiani

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Una bambina portata in passeggino dalla mamma bengalese gioca nel parco Cavallo pazzo del quatiere Garbatella. La donna è dimessa, sola, la bimba è divertita. Dopo dieci minuti inizierà la lezione di italiano per stranieri a cui anche loro si uniranno, dove anche la donna ritroverà una luce diversa negli occhi incorniciati dal velo. Si entra attraversando un cancelletto, un luogo colorato, allegro, una specie di grande patio all’aperto dove si radunano pian piano piccoli gruppi per fare un passetto insieme nell’apprendimento della lingua. Alcuni volontari sono gli animatori degli incontri, prendono i nominativi dei presenti, accolgono i tutor di chi arriva per la prima volta, accolgono come in una grande famiglia. Altri passeggini, sari fucsia, odore di cucina e pasti caldi. Giovani, donne, uomini in coppola. Un signore scopro viene dal Perù, mi dice che anche lui era un periodista e qui ha trovato belle persone che lo aiutano a vivere meglio.

Una grande sorpresa

Tra i volontari, da tre anni c’è Maria Vittoria Sebastiani, 86 anni, che il 29 novembre riceve al Quirinale l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana «per l’impegno, di tutta una vita, a favore della promozione della cultura del dialogo e dell’incontro». “E’ stata una grande sorpresa”, dice sorridendo. Si riconosce, tuttavia, nella motivazione poiché per tutta la vita si è occupata di avviare un meccanismo fatto proprio di dialogo e di incontro. “Questa parola è in qualche modo la parola chiave del mio modo di relazionarmi con queste persone che vivono insieme a noi e ci sono intorno”, spiega in una serena giornata dell’autunno romano. 

Maria Vittoria Sebastiani si racconta a Vatican News

Una scuola di accettazione dell’altro

Racconta la genesi di quella che lei definisce una scuola informale. “Con un’amica condividevo il desiderio di fare questa cosa perché avevo esperienza e perché ritengo che dal punto di vista civile e sociale l’immigrazione sia il tema più cruciale, più serio in cui i cittadini potrebbero impegnarsi”, racconta. “Non avrei potuto metter su una cucina sociale, ma potevo insegnare qualcosa, questo sì”. Una attività organizzata fin dagli inizi sulla base dell’accettazione dell’altro “che è un po’ tutta la filosofia o la politica di questo posto e in parte, per fortuna, di tutto il Municipio”. In questa porzione della capitale ci abita da ormai 15 anni, ne vanta la vivacità dell’associazionismo e delle iniziative socio-culturali. “Io mi rifiuto per principio di dare delle direttive, le potrei anche dare in un certo senso ma sono convinta che si può fare solo sulla base dell’esperienza”. 

In viaggio tra le culture

In effetti, Maria Vittoria di esperienza ne ha maturata tanta. Ottava figlia, genitori anziani, famiglia romana doc ma aperta all’estero. Negli anni Venti, in modo pionieristico, il padre vince una una borsa di studio e con la moglie e la prima figlia parte per Londra. Lo spirito di andare oltre i confini geografici dell’Italia comincia a farsi sentire presto. Anche Maria Vittoria, appena possibile, giovanissima, va in Inghilterra, poi negli Usa. Dopo altri due o tre anni ottiene una borsa di ricerca “che potevamo vivere in due”. La dice lunga su quello che è invece l’attuale investimento nei giovani. Il marito si occupava di regia di opera. “Mi sono messa a insegnare italiano con 1200 studenti. Ci organizzammo piuttosto bene. Scrissi anche un testo insieme a un’americana. Ero io per prima straniera”, racconta. “Io lì ho cominciato a capire cosa vuol dire essere europei: avere un altro sguardo sulla cultura e sulla socialità. Tutti mi scambiavano per una americana”. Una esperienza che si è rivelata di estrema utilità, anche sotto il profilo dello sviluppo di una certa attitudine psicologica.

Le migrazioni geografiche e interiori

“Era il periodo della guerra nel Vietnam, noi eravamo a Berkeley. Capimmo a un certo punto che era meglio andarcene e senza nessuna sicurezza di lavoro, decidemmo di tornare. Io mi avvalsi di una abilitazione all’insegnamento nelle scuole medie, così feci e fu straordinario, mi accorsi tra l’altro di un cambiamento epocale che nel frattempo c’era stato in soli quattro anni di assenza dall’Italia”. E così accenna alle sue ‘migrazioni’ nel lavoro, anche complicate. Una vita spesa attorno alla parola, allo scambio di questa risorsa preziosa perché fondamento di nuove appartenenze, di acquisizione di una nuova cittadinanza. Maria Vittoria è stata anche in Somalia per due anni. A Roma è stata Delegata delle relazioni internazionali dell’Università Roma Tre. Negli anni Novanta si inventava un master in “Politiche dell’incontro e mediazione culturale, pratica dei saperi e dei diritti in contesto migratorio”. Precisa l’importanza che almeno un terzo dei laureati dovessero essere stranieri. “Così è stato, per 12 anni. Molto bello. Prova ne è che in occasione di questa onorificenza almeno una cinquantina di persone mi ha mandato messaggi di congratulazioni”. 

Ascolta l’intervista a Maria Vittoria Sebastiani

Coinvolgere le donne del quartiere

“Qui all’inizio venivano dai centri per minori e a un certo punto venivano solo ragazzi albanesi. Con loro – confida – abbiamo avuto qualche disagio, poi risolto, ma perché loro consideravano questo momento solo come ricreazione”. Maria Vittoria racconta di come è cambiata l’utenza nel tempo: adesso molti arrivano dai centri che ospitano donne in difficoltà”. E si spinge a dire che è fondamentale coinvolgere anche le donne del quartiere: “Ci ripromettiamo di far venire queste persone che magari stanno qui da anni ma in pratica non sono mai uscite di casa. Il marito al lavoro e loro che badano ai bambini ma che non hanno nessun rapporto sociale. Lo vedo sotto i miei occhi. Più di una volta sono uscite di qua più rinfrancate”, spiega. “Nel passato siamo riuscite a lavorare bene e ad avere soddisfazioni grandi con qualcuno molto molto bravo, che abbiamo portato alla terza media, ma siamo consapevoli che possiamo fare e si che deve fare molto di più”.

Maria Vittoria mentre insegna italiano a un uomo peruviano

La voce sicura del Papa sull’inclusione sociale 

“In Italia purtroppo non esiste un sistema di accoglienza. Nell’Eneide, Didone che riceve Enea nella sua reggia, ha praticato una vera accoglienza. Qui da noi intanto non c’è una politica dell’immigrazione, e lo sappiamo e l’accoglienza è affidata in buona parte al volontariato, in buona parte cattolico, ma né l’uno né l’altro possono aspirare a creare un sistema, ovviamente. Il massimo a cui possiamo aspirare sono le dichiarazioni del Papa, lanciate per fortuna con assoluta sicurezza e fermezza. Lui dice che ci sia anche un sistema di accoglienza. Non essendoci questo sistema, allora – insiste – si può comunque, come cittadini qualsiasi, lavorare sull’incontro, sulla partecipazione, sulle cose fatte insieme. Ora si parla di ‘inclusione sociale’ ed è una buona cosa perchè invece ‘integrazione’ fa pensare alle volte ad ‘assimilazione'”. 

La condivisione dei racconti sui ‘viaggi della speranza’

“Li sento i miei colleghi, alcuni sono veramente bravissimi nel tirare fuori dalle persone il meglio”. Il racconto di Maria Vittoria è pacato, sereno. Parla della necessità di confrontarsi tra volontari-insegnanti per una verifica passo passo. E poi aggiunge, quasi en passant, che secondo lei non vale la pena insegnare il futuro perché tanto non lo si usa quasi mai. Fa impressione una frase così, eppure rimanda alla concretezza e all’obbedienza del presente, giorno dopo giorno. Eppure, qui a Casetta rossa c’è un presente vitale che prepara un futuro auspicabilmente buono. Certo, la direzione che poi prenderanno le esistenze delle persone non è del tutto nelle nostre mani. “Mi sono trovata a lavorare con persone a cui venivano le lacrime agli occhi pensando alla madre che telefonava e voleva un aiuto. Ragazzi di 17-18 anni”.

Ma il futuro dei migranti non lo si possiede

Maria Vittoria porta nel cuore la vicenda di un ragazzo del Ciad, che era arrivato a dirle cose terribili del suo viaggio. Andato via a 13 anni, una volta era tornato dopo aver preso della legna con la madre e aveva trovato i suoi tre fratelli ammazzati. Fino a 17 anni in Libia. Senza bussola, partito con un barcone, e il gruppo con cui viaggiava incappato nella guardia costiera libica. Riportati indietro. “Un racconto fatto con estrema diginità e con grande desiderio di studiare. Scriveva quando era in carcere, individuato dall’Unhcr è stato portato in Italia. Uno si aspetta che poi venga seguito. Invece non è detto. Noi lo abbiamo sempre seguito. Ma a un certo punto – qui l’amarezza – non lo abbiamo più visto. Il suo sogno era diventare medico. Vedrai che ce la farai, gli dicevo”. Il timore è che sia incappato nella tratta. 

Le persone straniere a Roma durante una lezione di italiano nella “Casetta rossa”, nel rione romano della Garbatella

Cosa ha imparato, lei, insegnando per tutta una vita e facendolo ancora qui? “Il valore dell’incontro spicciolo, del rispetto. Il fatto che anche se non riesci a insegnare loro bene il congiuntivo, riesci almeno a conoscere abbastanza bene i contesti di provenienza. E poi si comprende che ogni persona rappresenta un mondo a sé”. 

“I sovranismi mi fanno orrore”

Prima di congedarci, le chiediamo cosa pensi di ciò che sta avvenendo alla frontiera tra Polonia e Bielorussia. “Ci dovrebbe essere davvero un intervento diplomatico più forte, nel senso alto del termine. In ogni caso mai bisogna usare questa sistema del respingimento”, ci dice. “E’ proprio il concetto che non va. Andrebbe sì regolamentato questo flusso ma il fatto che ci siano delle persone che vogliono venire in Europa mi sembra la cosa più normale del mondo”. E chiosa: “I sovranismi non mi fanno paura, mi fanno orrore. Io credo che siamo arrivati a un punto in cui le persone che hanno il potere, quando fanno un progetto di qualsiasi natura, dovrebbero prendere in considerazione che c’è una quantità di persone che vengono da altri Paesi e che vanno incoraggiati a studiare e non semplicemente considerati una zavorra. Soprattutto vanno menzionati. Invece non succede mai. Menzionarli significa dare loro un riconoscimento di se stessi. Quando noi qui parliamo con loro, e loro un po’ riescono a emergere, dicono che se la stanno sbrigando per il lavoro senza necessariamente entrare nel racket, sono naturalmante contenti. A molti manca il saper fare le cose insieme. Bisogna fare a meno di considerare il ‘noi’ e ‘loro’. Non vogliamo più parlare con il loro”. 

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