Chiesa Cattolica – Italiana

Dal pallone all’altare, storia di una scelta

Michele Raviart – Città del Vaticano

Da un lato la possibilità di vivere giocando a calcio, iniziando il percorso nelle giovanili di una grande squadra di serie A. Dall’altro la scelta di seguire la strada di una vita più grande e seguire così la chiamata di Dio. È la storia di Samuel Piermarini, 28 anni, uno dei nove sacerdoti che saranno ordinati domenica prossima da Papa Francesco. Samuel ha studiato al Seminario diocesano internazionale “Redemptoris Mater”, il primo dei 120 seminari che raccoglie nel mondo le vocazioni nate all’interno del Cammino neocatecumenale ed ha svolto il diaconato alla parrocchia di San Giovanni Battista della Salle nella periferia romana del Torrino.

“Il nostro cuore è colmo di una grande riconoscenza a Dio per quello che sta operando nella nostra famiglia”: hanno scritto così Simonetta e Roberta, i genitori di Samuel, in una lettera alla Radio Vaticana, la “casa” di Roberto per molti anni fino alla pensione raggiunta in piena pandemia. “Io e mia moglie vogliamo condividere con voi l’immensa gioia per questo dono. Pregate per Samuel, perché il Signore gli doni sempre santità di vita nel suo ministero presbiterale e zelo ed amore per l’evangelizzazione”. Grande è l’attesa del ragazzo per la giornata di domani:

Ascolta l’intervista a Samuel Piermarini

R. –  È  una cosa spettacolare. Primo perché lo scorso anno il Papa non ha fatto le ordinazioni, quindi eravamo sul “chi va là” se le potesse fare o meno. Le fa, e quindi è sempre una grazia. Non perché se ti impone le mani in testa un Papa o un vescovo a livello sostanziale ci sia differenza, ma è comunque il vescovo di Roma e io sono di Roma e della diocesi di Roma, quindi che il Papa mi imponga le mani in testa per l’ordinazione è la cosa più bella che possa esserci. E come essere nella squadra più forte del mondo. Si gioca sempre a calcio, ma nella squadra più forte del mondo!

Tu sei stato appunto calciatore… Che percorso è stato quello per diventare sacerdote?

R. – Bisogna innanzitutto specificare che la chiamata non è che viene dall’alto e uno deve dire “ok, devo dire di sì, la devo accettare”. C’è tutto un processo interno che ti fa capire che la vita alla quale sei chiamato non è quella che tanta altra gente fa. Io mi sono trovato a un punto in cui ero fidanzato e giocavo a pallone. E c’è stata questa giornata importante in cui la Roma mi ha chiamato per andare a fare il secondo portiere da loro a gennaio, sono andato a fare il provino e poi, passata una settimana, l’allenatore a quel tempo degli allievi nazionali della Roma, Stramaccioni, mi dice: “per ma va bene, quando vuoi vieni a firmare”. Io in quel momento gli ho risposto: “Mister, sinceramente non me la sento”.  Certo che ci avrei potuto provare ad andare alla Roma, ma avevo un tormento interno che mi diceva che non ero fatto per quella vita.

Nel corso degli anni hai poi trovato un nesso tra rinunciare a fare il calciatore e diventare sacerdote? Secondo te sarebbe successo comunque?

R. – Non si può sapere. Sono successe delle cose una dopo l’altra. Anche il fatto che mi sono lasciato con la mia ragazza in una maniera molto strana, dopo una semplice litigata non ho sentito più niente mentre in realtà le cose tra di noi andavano bene. Ci sono stati tanti fatti che sono maturati dentro di me piano piano che poi mi hanno fatto dire a un certo punto: “e se il Signore mi chiamasse a fare questa vita?”. Ovviamente anche questo non avviene dal niente. Uno può pensare a una cosa del genere se ha visto “preti santi”. Come tutte le cose, se uno non sa cosa significa essere prete, non l’ha visto mai o pensa che siano tutti noiosi a uno difficilmente viene in mente quello che ho visto io, che poi è la chiamata che mi ha fatto il Signore. Magari sarei andato alla Roma e dopo sei mesi avrei finito e sarebbe avvenuta comunque la chiamata. Non lo so, perché il punto è che tante volte il Signore ti chiama, ma uno è libero di decidere se rispondere “sì” o “no”. Il punto è trovarsi a proprio agio con la vita che fai.

Quello che hai detto è che per te la chiamata non è stata un momento specifico, ma una cosa che è stata vissuta con un rapporto “familiare” con la fede. Qual è stato il tuo rapporto con la fede?

R. – Come la mia famiglia sono entrato a far parte del Cammino neocatecumenale, che è l’esperienza dove ho vissuto la mia fede concretamente. Solo che l’ho vissuta da “ragazzo”. Vengo a Messa, capisco che è una cosa importante, però volevo essere lasciato a fare le “mie cose”. Avevo però delle domande “serie” dentro, delle inquietudini. Vedevo dove stava la bellezza, però concretamente queste cose non ce la facevo a farle. Quindi ho fatto tante cavolate. Andavo in Chiesa, ma di concreto non c’era niente. Però il punto bello è che di fondo queste domande mi erano rimaste. Anche se io poi non avessi risposto veramente a questa chiamata di fede – perché altrimenti può sembrare una cosa idilliaca, no? Uno va in Chiesa, Gesù ti chiama ed è tutto bellissimo – , a me avevano seminato dentro che la vita era fatta per fare cose grandi. Ecco allora che quella chiamata è rimasta, a me quell’annuncio era stato fatto da parte della Chiesa.

Il tuo seminario, il Redemptoris Mater, prevede che facciate anche dei viaggi all’estero durante la vostra formazione. Che esperienze hai fatto?

R. – Noi ogni estate facevamo due mesi all’estero. Io sono andato in due Stati differenti dell’Australia, in India, una volta ad ovest e l’altra a Calcutta. Poi sono stato in Ecuador due mesi, ma finiti i cinque anni di studi noi partiamo sempre un anno e mezzo o due in una missione staccati da casa e fuori dal seminario. Io sono stato un anno e mezzo in Brasile, nello Stato di Bahia. Quello è stato il momento più importante, perché quando sei fuori per due mesi sai che stai per tornare. Tagli invece con la famiglia, tagli con il seminario, vivi lì. Quella è stata l’esperienza che più mi ha fatto maturare in fondo. La cosa più bella della mia formazione è stata avere un respiro in tutto il mondo: Brasile, India, Svezia, Australia. Ti trovi con un’apertura mentale bellissima, ed è Roma che evangelizza.

Come ti ha rafforzato, non solo nella fede, ma anche come persona?

R. – La cosa bella è che (in missione in Brasile) non hai più uscite di emergenza alle quali ti puoi appoggiare. La chiamata ai genitori serve a poco, hai tagliato con gli affetti più vicini, gli amici. Non c’erano lì. La lingua non la sapevo e ho dovuta impararla lì. Il taglio è forte e il pensiero di voler tornare a casa dopo la prima sofferenza era fortissimo. Quindi il passaggio era dall’avere un padre spirituale con cui poter parlare sempre in seminario, a vedersela da soli con Gesù Cristo. Questo è il passaggio forte di maturazione ed è stato il primo taglio forte e bellissimo. La seconda cosa è vedere che un ragazzo di 23-24 anni annunciava il Vangelo e vedeva che la vita della gente cambiava. Coppie che stavano per divorziare non lo hanno più fatto, gente che ha perdonato. E tu pensi “ho 24 anni non so nemmeno quanto sono alto e queste persone cambiano vita”. È chiaro che a farlo è Dio, ma Dio lo fa attraverso le persone. Allora vedere che l’annuncio del Vangelo era vero, che la gente cambiava vita, questa è stata la cosa più bella.

L’ordinazione sarà la fine di un percorso, ma in realtà sarà un nuovo inizio. Che cosa ti aspetti, cosa ti immagini o speri?

R. – Io vedo che con i miei ragazzi mi trovo benissimo, l’ho visto adesso con il diaconato dove ho potuta già fare tante cose qui in parrocchia. Quindi ho visto in questi sei mesi di poter dare una speranza ai ragazzi. Tanti ragazzi pensano che per diventare prete o bisogna essere un “supersanto” o una persona “strana”. Quindi quando un ragazzo vede che c’è una persona che si poteva sposare, che è come lui, ha le stesse passioni e atteggiamenti, ma ha fatto una scelta più grande, o perlomeno differente, questo a loro li rincuora. Quindi aiutare le persone e far vedere che è bello essere cristiani è la cosa più bella che può esserci.

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