Chiesa Cattolica – Italiana

Cantalamessa: chi crede in Cristo non conosce disperazione

OSSERVATORE ROMANO

Solo Gesù ci salva dall’essere “ritratti” mentre, disperati, lanciamo un “urlo” come fossimo in un quadro “alla Edvard Munch”. Sì, dall’essere noi quella persona “che attraversa correndo un ponte – sorpassando due  individui che sembrano ignari e indifferenti a tutto – con gli occhi sbarrati, le mani intorno alla bocca emettendo un grido di disperazione”. Proprio dal rischio di ritrovarsi – tragicamente – in uno dei più famosi dipinti dell’arte moderna, che rappresenta visivamente dove porta la convinzione che la vita non ha senso, il cardinale Raniero Cantalamessa ha suggerito di stare in guardia nella terza predica di Quaresima che ha tenuto, questa mattina nell’aula Paolo VI alla presenza del Papa e con un’Ave Maria per i frutti del viaggio in Iraq.

E lo si può fare, ha spiegato, reagendo “alla tendenza diffusissima di parlare della Chiesa et si Christus non daretur, come se Cristo non esistesse, come se si potesse capire tutto di essa prescindendo da lui”. Ma è opportuno “reagire in modo diverso dal solito: non cercando di convincere di errore il mondo e i suoi mezzi di comunicazione, ma rinnovando e intensificando la nostra fede in Cristo”.

“Per parlare di Cristo – ha affermato il predicatore della Casa Pontificia, proseguendo la riflessione quaresimale sul tema: “Ma voi chi dite che io sia?” (Matteo 16, 15) – abbiamo scelto la via più sicura che è quella del dogma: Cristo vero uomo, Cristo vero Dio, Cristo una sola persona”. In realtà “si tratta di risvegliare i dogmi, di infondere in essi vita”. E se venerdì scorso il cardinale aveva rilanciato il “dogma di Gesù vero uomo”, oggi lo ha fatto con “il dogma di Cristo vero Dio”.

“La fede nella divinità di Cristo nasce col nascere della Chiesa. Ma che ne è oggi di tale fede?”. Per rispondere a questa domanda, rivolta senza sconti a ciascuno, il cardinale ha preso le mosse proprio “dalla storia del dogma della divinità di Cristo, sancito solennemente nel concilio di Nicea del 325 con le parole che ripetiamo nel Credo”.

Con l’illuminismo e il razionalismo c’è la riduzione del “cristianesimo a un sublime ideale morale che può prescindere dalla divinità di Cristo e perfino dalla sua esistenza storica”. Ecco l’urgenza “di risvegliare in noi la fede nella divinità di Cristo”. Partendo dall’esperienza che ci propongono i Vangeli, quello di Giovanni in particolare.

“Se alla domanda di Gesù: ‘Credi tu?’, uno risponde subito, senza neppure pensarci: “Certo che credo” e trova perfino strano che venga rivolta una simile domanda a un credente, a un sacerdote o a un vescovo, probabilmente – ha fatto presente il predicatore – vuol dire che non ha ancora scoperto cosa significa veramente credere, non ha mai provato la grande vertigine della ragione che precede l’atto di fede. La divinità di Cristo è la cima più alta, l’Everest della fede. Credere in un Dio nato in una stalla e morto su una croce è molto più esigente che credere in un Dio lontano che ognuno può raffigurarsi a proprio piacimento”.

“Bisogna cominciare – ha suggerito – con demolire in noi credenti, e in noi uomini di Chiesa, la falsa persuasione che quanto alla fede siamo a posto e che, semmai, dobbiamo lavorare ancora sulla carità. Chissà che non sia un bene, per un po’ di tempo, non volere dimostrare niente a nessuno, ma interiorizzare la fede, riscoprire le sue radici nel cuore!”.

Insomma, “dobbiamo ricreare le condizioni per una ripresa della fede nella divinità di Cristo. Riprodurre lo slancio di fede da cui nacque il dogma di Nicea”. Consapevoli però che “non basta ripetere il Credo di Nicea, occorre rinnovare lo slancio di fede che si ebbe allora nella divinità di Cristo e di cui non c’è stato più l’eguale nei secoli”.

Tanto che il cardinale ha proposto “che si dovrebbe accertare soprattutto che chi insegna teologia ai futuri ministri del Vangelo creda fermamente nella divinità di Cristo. Accertare ciò mediante un franco e fraterno discernimento, meglio che con un giuramento”.

E qui sono davvero grandi le prospettive ecumeniche. Senza fondamentalismo o soggettivismo sfrenato, infatti, “il vero “ecumenismo spirituale” non consiste soltanto – ha spiegato – nel pregare per l’unità dei cristiani, ma nel condividere la stessa esperienza dello Spirito Santo. Consiste in quella che Agostino chiama la societas sanctorum, la comunione dei santi, che a volte, dolorosamente, può non coincidere con la communio sacramentorum, cioè con la condivisione degli stessi segni sacramentali”.

Dunque, la “pietra angolare dell’edificio della fede cristiana è la divinità di Cristo: tolta questa, tutto si sfalda e crolla”. E, in conclusione, il predicatore ha portato la questione “sul senso della vita, ancor di più in questo tempo di pandemia”. La fede in Cristo, ha assicurato, dà “la possibilità di resistere alla grande tentazione del non-senso della vita che porta spesso al suicidio. Chi crede in Cristo sa che è amato da qualcuno e che questo qualcuno ha dato la vita per dimostraglielo”.

Un semplice consiglio pratico? Ripetere consapevolmente il Credo, non solo la domenica a messa…

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