Bangladesh. Attacco in un campo profughi al confine con il Myanmar: sette i morti

Vatican News

Anna Poce – Città del Vaticano

La tensione nei campi profughi sta salendo dopo l’uccisione, il 29 settembre scorso, a Cox’s Bazaar, di un leader della comunità etnica, difensore dei diritti umani e fondatore dell’Arakan Rohingya Society for Peace and Human Rights (ARSPH), Mohib Ullah, per mano – secondo alcuni attivisti – dell’Arakan Rohingya Salvation Army. L’ARSA, milizia Rohingya che combatte l’esercito del Myanmar, nega tuttavia di essere coinvolta nell’omicidio e chiede un’indagine per scoprire i veri colpevoli. La polizia, che sta indagando anche sulle cause dell’ultima sparatoria, ha riferito che la sicurezza nei campi, dove risiedono più di 900.000 profughi, è stata rafforzata. Continuano, inoltre, i diversi programmi di assistenza sociale promossi da Caritas Bangladesh e dall’UNHCR, per favorire un percorso che porti i profughi a condizioni di vita dignitose.

Caritas Bangladesh

Immanual Chayan Biswas, capo delle operazioni del Programma di risposta alle emergenze di Caritas Bangladesh, ha spiegato all’agenzia Fides che i tre anni passati a lavorare al programma di accoglienza, cercando di offrire solidarietà concreta e speranza, hanno visto i profughi passare da rifugi temporanei a rifugi più stabili, e le donne e i bambini arrivati qui con traumi psicologici tornare a vivere una vita normale.

Visita del cardinale D’Rozario a Cox’s Bazar

Anche il cardinale Patrick D’Rozario, arcivescovo emerito di Dhaka, in visita nei giorni scorsi al più grande campo profughi del mondo a Cox’s Bazar, ha riferito all’agenzia Fides come questa minoranza etnica qui riesca “a soddisfare alcune necessità di base della vita e disponga di un rifugio dignitoso”, e come questo rappresenti già un passo avanti. Egli ha spiegato che il lavoro della Caritas, “la dedizione, l’assistenza, una buona pianificazione degli aiuti abbiano davvero dato all’ambiente un volto umano”. “Quando sono arrivato qui per la prima volta – ha ricordato -, tutti erano tristi. Non si avvicinavano nemmeno chiamandoli. Ora vedo campi ben organizzati, dove le persone vivono umanamente”. “Noi siamo accanto a loro”, ha aggiunto, ma c’è bisogno anche della solidarietà delle altre nazioni.

Assicurare protezione alla comunità Rohingya 

L’auspicio di tutti – ha precisato il cardinale – è che i Rohingya possano tornare in Myanmar e la comunità internazionale si sta impegnando affinché questo avvenga. Ma se i profughi non si sentiranno sicuri nei loro diritti, anche di cittadinanza, non vorranno tornare indietro. “Queste persone – ha affermato – dovrebbero essere ben accolte, dovrebbero essere protette, dovrebbero essere accompagnate nello sviluppo e nella promozione umana”, e la situazione invece è ancora molto complicata. Il Myanmar, infatti, non riconosce i Rohingya come cittadini, complicando il processo di richiesta di asilo all’estero. “Apriamo i nostri cuori alle persone che hanno bisogno del nostro sostegno – ha concluso il porporato – per garantire loro un’esistenza in questo mondo”.

Più di 700mila minori Rohingya vedono violati i loro diritti 

Secondo il rapporto di Save the Children “No safe haven – Nessun rifugio sicuro”, pubblicato a giugno, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, più di 700.000 bambini e adolescenti Rohingya in tutta l’Asia subiscono gravi discriminazioni e violazioni dei diritti fondamentali e la maggior parte di loro vive fuori dal Myanmar, il loro Paese d’origine. “Si deve immediatamente garantire sicurezza, rispetto e protezione dei Rohingya, concedendo loro la cittadinanza in Myanmar – ha dichiarato Hassan Noor, direttore Regionale di Save the Children in Asia – ma anche garantendo che i loro diritti di rifugiati siano rispettati in altri Paesi, tra cui il diritto all’istruzione per i bambini. Senza tutto questo, un’intera generazione di minori Rohingya non potrà avere una vita migliore e contribuire allo sviluppo dei Paesi in cui vivono”.