Africa: un continente che ha bisogno di essere riconosciuto nella sua dignità

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Adriana Masotti – Città del Vaticano

Ricorre oggi la Giornata mondiale dell’Africa. La data ricorda l’anniversario della fondazione dell’Organizzazione dell’Unità Africana, il 25 maggio del 1963, giorno in cui i leader di 30 dei 32 Stati indipendenti del continente firmarono lo statuto ad Addis Abeba, in Etiopia. L’obiettivo era promuovere l’unità e la solidarietà tra i membri e salvaguardarne l’integrità territoriale. Dal 2009 l’Organizzazione venne sostituita dall’Unione Africana con l’intento di accelerare il processo di integrazione dell’Africa, sostenere gli Stati africani nel contesto dell’economia globale e affrontare i problemi sociali, economici e politici. Non solo: tra le finalità c’era anche, e c’è, la promozione dei principi democratici, della pace, della sicurezza e della stabilità nel continente, la promozione e protezione dei diritti umani e dei popoli. Cinquantaquattro gli Stati che oggi vi fanno parte. 

Un continente in recessione con infinite potenzialità

In vista della Pentecoste di quest’anno, i vescovi del SECAM, Simposio delle Conferenze episcopali dell’Africa e del Madagascar, in un messaggio hanno espresso la loro preoccupazione per la pandemia che si è diffusa anche nel loro continente, per i violenti conflitti in corso e per il forte indice di indigenza, rivolgendo un forte appello ai fedeli alla carità e alla preghiera. La Giornata mondiale dell’Africa è una buona occasione per parlare di questo continente da una parte ai margini, in realtà preda appetibile degli interessi di tanti e i cui problemi si ripercuotono inevitabilmente sul tutto il resto del mondo, vedi la questione migratoria. Un continente anche tanto ricco di potenzialità, di cultura, di valori, di voglia di andare avanti. Ma qual è la salute generale dell’Africa in questo momento. Abbiamo rivolto la domanda a padre Giulio Albanese, missionario comboniano, giornalista, editorialista dell’Osservatore Romano, esperto di Africa:

Ascolta l’intervista a Giulio Albanese

R. – Questo continente sta attraversando una penosa congiuntura, anzitutto direi, per l’impennata della conflittualità tra gli Stati, dalla Somalia alla Repubblica Democratica del Congo, dalla Nigeria settentrionale alla recente crisi del Tigrai. Diciamo che la lista è lunga, e poi cosa dire dei pesanti condizionamenti derivati dalla crisi libica con la costante penetrazione di cellule jihadiste verso il meridione, quindi verso l’Africa subsahariana. Se a questo aggiungiamo la crisi economica scatenata dal Covid-19, che ha innescato meccanismi recessivi senza precedenti, unitamente a quello che è l’accanimento della speculazione finanziaria internazionale e la debolezza del sistema sanitario continentale, per non parlare poi dei cambiamenti climatici, il tanto declamato Rinascimento africano, a mio avviso, in questo frangente sembra essere svanito in una bolla di sapone.

L’Unione Africana, che è seguita all’Organizzazione dell’Unità Africana, ha la capacità e la possibilità di operare per quello per cui stata costituita?

R. – Io credo che anche da questo punto di vista è necessario essere estremamente realistici. In questi anni, sicuramente dei progressi ci sono stati. Quando è nata l’Organizzazione dell’Unità Africana i sogni nel cassetto erano davvero tanti, però di fatto questo organismo non ha mai funzionato bene. Il rilancio, tra virgolette, c’è stato con la nascita della Unione Africana che certamente ha rappresentato un progresso. Innanzitutto ha portato ad una maggiore integrazione tra gli Stati, ma è stato affrontato soprattutto uno dei punti fermi su cui si reggeva la passata Organizzazione, il fatto che non si potesse ingerire negli affari interni dei singoli Paesi. Oggi, invece, quando avviene un colpo di Stato in qualsiasi Paese africano, la prima iniziativa che viene presa da Addis Abeba, sede dell’Unione, è proprio quella di sospendere questo Stato, sostanzialmente di metterlo al cantone. Rimane aperta la questione della intangibilità dei confini ancora oggi una sorta di principio categorico. Il problema è che però, nel frattempo, sono avvenuti dei cambiamenti, pensiamo alla nascita dell’Eritrea che prima faceva parte dell’Etiopia, o nel 2011 alla nascita del Sud Sudan e questo significa che il grande Sudan, fino a quel momento il più grande Paese africano, è stato diviso in due. Ora, questo rappresenta motivo di preoccupazione, anche perché noi sappiamo che i confini degli Stati sono un retaggio dell’epoca coloniale. Certamente bisogna scongiurare situazioni di conflittualità, ma non dimentichiamo che la prima cosa da fare oggi per garantire la pace nel continente è assicurare la sicurezza alimentare e poi la partecipazione democratica di tutti coloro che, all’interno dei Paesi, sono chiamati ad esercitare il diritto di voto. Noi sappiamo che in Africa questo è un altro grosso problema, perché quando ci sono le consultazioni, in molti Paesi molto spesso si verificano brogli. Ma c’è un aspetto fondamentale: il fatto che comunque in Africa – ma sarebbe più giusto parlare al plurale, nelle Afriche, perché è un continente grande tre volte l’Europa -, c’è una società civile che sta maturando ed è composta da una galassia di associazioni, movimenti e gruppi, anche realtà ecclesiali cristiane, che si stanno impegnando nell’ affermare il diritto di cittadinanza e io credo che la società civile, nelle sue molteplici articolazioni, costituisca davvero il vivaio di quelle che saranno le future classi dirigenti. Credo che questa è una scommessa che va fatta e su cui bisogna puntare.

Conflitti, cambiamenti climatici, malnutrizione, migrazione e corruzione continuano a flagellare l’Africa, e la nostra immagine del continente è per la maggior parte negativa. C’è qualcosa che ci può far cambiare idea, come quella a cui hai accennato, che ci apra di più anche al bello dell’Africa?

R. – Io credo che la sfida sia innanzitutto e soprattutto culturale. Cioè, dobbiamo metterci in testa che certi luoghi comuni che appartengono al nostro immaginario, vanno davvero demoliti. Per esempio, l’Africa non è assolutamente povera come spesso si pensa. Semmai è impoverita, ma questa è un’altra cosa. L’Africa non chiede la nostra beneficenza, chiede il riconoscimento della propria dignità. Questo continente, se fosse davvero rispettato, non si manifesterebbe come una sorta di terra di conquista da parte soprattutto di organizzazioni, imprese e aziende straniere multinazionali. L’Africa ha bisogno davvero di una cooperazione perspicace, intelligente perché poi, se andiamo a vedere i dati dell’UNCTAD, il paradosso è proprio questo: che sono molti di più i soldi che gli africani nel loro complesso, le Nazioni africane, danno alle Nazioni ricche e industrializzate, rispetto a quelli che noi presumiamo di dare loro. E questo perchè c’è un’attività fortemente speculativa proprio sulle ricchezze naturali del continente. Un altro aspetto molto importante è la questione del debito. Nel momento in cui vengono prestati dei denari ai Paesi africani, noi assistiamo a quel fenomeno che viene definito in gergo ‘finanziarizzazione’ del debito. In sostanza significa che il pagamento degli interessi è legato alle speculazioni in borsa, si tratta di un sistema vessatorio perché è dimostrato matematicamente che se il debito viene finanziarizzato, chi riceve i soldi, il benificiario, non sarà mai poi nelle condizioni di poter restituire, rispettando la tabella di marcia, quello che ha ricevuto. Qui faccio in particolare riferimento al meccanismo degli interessi. Allora c’è qualcosa di sistemico che non va, che impedisce il tanto agognato sviluppo.

La pandemia ha colpito anche l’Africa. Adesso la questione aperta è quella dei vaccini. C’è molto da fare ancora perché le persone in Africa vengano vaccinate e si parla di una risposta mondiale da dare di fronte a questa situazione…

R. – Questo è importantissimo, anche perché il sistema sanitario continentale lascia molto a desiderare. Certamente in questo ultimo anno e mezzo sono stati fatti molti sforzi non solo per monitorare la pandemia, ma anche per dare delle risposte. Ciò non toglie che il cammino sia ancora lungo, anche perché l’Africa è grande e soprattutto le zone rurali spesso sono isolate dal resto del mondo. Oggi in Africa c’è penuria di vaccini ed è necessario il coinvolgimento del consesso delle Nazioni per migliorare la situazione. L’Africa ha davvero bisogno di solidarietà dal punto di vista della salute, perché è il continente nel mondo in cui c’è la maggior circolazione di fake medical cioè di farmaci contraffatti che invece di guarire le persone, in molti casi addirittura possono determinarne la morte. Dobbiamo capire che abbiamo un destino comune e credo che questa sia la grande lezione che ci viene impartita da questa pandemia. Finchè ci sarà penuria di vaccini nelle periferie del mondo, in particolare in Africa, il rischio di nuove varianti e dunque che la diffusione del virus continui, è quasi scontato. Ecco perché è necessario uno sforzo e qui mi viene in mente quello che diceva il grande statista senegalese Leopold Sedar Senghor: “il passato ci ha trovato divisi, ma il presente ci deve trovare all’appuntamento del dare e del ricevere perché abbiamo un destino comune”. Plinio il Vecchio, a proposito del continente africano diceva: “ex Africa semper aliquid novi”, il che tradotto significa che dall’Africa c’è sempre qualcosa di nuovo. Ecco, non dimentichiamo che l’Africa ha delle straordinarie potenzialità, ha saperi ancestrali, è davvero una galassia di popoli – sono oltre 1500 – e tornando indietro con la moviola della storia vediamo che è stata la culla dell’umanità, è lì che l’homo Sapiens ha mosso i primi passi. E credo che davvero l’Africa non solo abbia bisogno di un riconoscimento e di una restituzione, ma non possiamo dimenticare che queste culture hanno dato molto all’umanità. Pensiamo alla civiltà egiziana, a quella axumita, pensiamo anche a tutte quelle etnie che sono anni luce distanti dal nostro immaginario, ma che possiedono un sapere che comunque è parte del bene comune dell’umanità di cui noi stessi siamo parte integrante.