2 novembre, commemorazione dei defunti. Il Papa visita il cimitero militare francese

Vatican News

Antonella Palermo – Città del Vaticano

“Sarà l’occasione per pregare in suffragio di tutti i morti, in particolare per le vittime della guerra e della violenza”. Così il Papa ieri, a conclusione della recita dell’Angelus, ha guardato alla giornata odierna in cui la Chiesa commemora i fedeli defunti. Anche Francesco lo farà recandosi al cimitero militare francese sulla collina di Monte Mario a Roma, dove alle 11.00 presiederà la celebrazione eucaristica, unito “spiritualmente a quanti in questi giorni – parole sempre di domenica scorsa – vanno a pregare presso le tombe dei loro cari, in ogni parte del mondo. Non è la prima visita del Pontefice ad un cimitero militare: nel 2017 ha visitato quello americano di Nettuno e nel 2014 quello di Redipuglia, in occasione del centenario dello scoppio della prima Guerra mondiale.

La morte per la fede cristiana

Il giorno della commemorazione dei defunti e la cerimonia del Papa sono un’ occasione per riflettere sul senso per il cristiano della morte e del culto dei defunti. Mentre si registrano cinque milioni di morti nel mondo a causa del Covid-19, altre vite umane si spengono a causa di malattie fulminanti e lentamente degenerative, per incidenti, calamità, violenze, o semplicemente per vecchiaia. Confrontarsi con la fine della vita sulla terra è fonte di inquietudine e ritrosia. Si tenta di ‘addomesticare’ la morte laddove la paura è troppo paralizzante. Eppure il cristiano sa che la fine ‘quaggiù’ segna il passaggio alla vita piena con il Padre. Quanto, tuttavia, questa consapevolezza riguarda solo la nostra testa e poco il nostro cuore, la dimensione profonda del nostro essere? Ci aiuta a rimettere a fuoco alcuni fondamenti, il gesuita Gaetano Piccolo SJ, Decano della Facoltà di Filosofia alla Pontificia Università Gregoriana:

Ascolta l’intervista a Padre Gaetano Piccolo SJ

Quale è il senso della morte per il cristiano?

Oggi mi sembra particolarmente importante farsi questa domanda perché viviamo anche in un contesto culturale che fa molta fatica ad accogliere e a guardare alla morte in maniera, diciamo, non particolarmente drammatica. Nel contesto cristiano c’è una sapienza che parte dall’Antico Testamento e che ci invita a “contare i nostri giorni” proprio per raggiungere la saggezza. Ce lo dice il Salmo 90: imparare a contare i nostri giorni è il riconoscimento della nostra finitudine, del nostro limite che è lo spazio che ci apre al riconoscimento di essere creati e amati da Dio. E poi la dimensione della morte è in qualche modo al centro della nostra fede: Cristo muore per noi, Dio sceglie come via di salvezza questo passaggio attraverso la morte. Dio avrebbe potuto salvarci in altri modi ma sceglie di passare attraverso il dolore, la sofferenza e la morte. In questo, ci invita a riconoscere una possibilità di vita e di rinascita in tutti i nostri momenti di morte, è l’immagine del chicco di grano che se non muore non porta vita.

Dovremmo essere dunque maggiormente attenti e guidati per guardare alle nostre morti interiori e anche alla morte inevitabile con quello spirito di letizia che portava San Francesco d’Assisi a parlare della morte come di una ‘sorella’?

Questo sguardo sulla morte è sicuramente una sfida per ciascuno di noi. Lo abbiamo compreso ancora meglio, forse, in questo ultimo tempo di pandemia. Ci siamo preoccupati della nostra vita, della nostra salute, a ragione, di preservare la nostra fisicità. Dall’altra parte siamo anche però chiamati a tenere insieme a questo sguardo anche quello nei confronti della nostra morte, che vuol dire del nostro limite e della nostra fragilità. Queste due prospettive vanno tenute insieme: il riconoscimento e la gratitudine della vita ma anche la disponibilità e l’apertura al riconoscimento del nostro limite. Esorcizzare la morte, essere così aggrappati alla vita, forse non ci aiuta a riconoscere il vero senso della nostra esistenza. Aggiungo, poi, che dal punto di vista cristiano la morte è ciò che ci apre alla vita eterna. La morte contiene in sé l’apertura alla vita eterna. E’ importante dunque educarci a questo sguardo.

A che serve il culto dei defunti?

Anzitutto, possiamo ricordare che il culto dei defunti è tra le prime attestazioni dal punto di vista antropologico che differenzia l’essere umano dagli animali. L’attenzione, la cura e il culto dei defunti dice qualcosa della nostra umanità, ci caratterizza come esseri umani. Aggiungerei che il culto dei defunti diventa uno spazio per la memoria. Il ricordo dei nostri cari o di quelli che ci hanno preceduto è ricordare che c’è appunto una vita che mi precede. Io mi ci metto dentro a questa vita che continua dopo di me. Inoltre il culto ci fa comprendere che la vita nella morte, come dice la preghiera eucaristica, non è distrutta ma è trasformata. Il culto dei defunti ci dice che possiamo stare in relazione con i nostri cari anche dopo la morte in un modo nuovo. Ci fa comprendere questo continuare della vita in altre forme. E proprio per questo la cura dei cimiteri è un segno di civiltà.

Le nuove generazioni come guardano alla morte negli ambienti reali e virtuali che frequentano?

Loro in fondo guardano le cose come le guardano gli adulti. Sono il riflesso, con una minore capacità critica, del modo in cui gli adulti guardano le cose. In quest’ultimo periodo mi sono preoccupato di vedere come gli adolescenti e i bambini siano terrorizzati dalle immagini di morte che la nostra cultura ha messo in gioco. Il modo in cui abbiamo raccontato l’epidemia ha segnato l’immaginario di persone che hanno degli strumenti meno critici per guardare alla realtà. In maniera molto delicata, dunque, penso che bisogna tener conto che le nostre visioni a volte umoristiche e a volte drammatiche incidono sull’immaginario dei più giovani.